l’arte di immedesimarsi nel proprio opposto
(Matteo Cellini Cate, io)
Cate, io di Matteo Cellini (appena uscito per Fazi, € 16,00, pp. 216) è la storia di una ragazza obesa. Brava a scuola, amata in famiglia, ma infelice. Alla vigilia del 18esimo compleanno, terrorizzata all’idea della festa, del vestito e degli sguardi dei compagni, Caterina si lancia in un’abbuffata epica (non vi svelo cosa mangia, ma è indimenticabile!). I suoi pensieri di adolescente grassa sono così credibili che viene da dire “Chapeau!” all’autore: esordiente, 35enne, maschio. Per giunta filiforme.
Questo libro mi colpisce per come è scritto: Matteo usa similitudini e metafore con generosità non pretestuosa; sono sempre sorprendenti, come di uno che guarda le cose da una visuale un po’ obliqua. E mi colpisce per la capacità di immedesimarsi. Propongo un’intervista al giornale sul tema “l’arte di immedesimarsi”. E di fotografare Matteo nella posa della copertina del suo libro, cosa a cui lui spiritosamente si presta, nonostante la timidezza…
Come hai fatto a creare un personaggio che è il tuo opposto in tutto?
«Ho iniziato scrivendo su un diario immagini del mondo come doveva vederlo lei. Ogni cosa troppo piccola: le poltrone del cinema, i sedili del tram*».
Immedesimarsi è un’arte?
«È un’inclinazione. Insegno in una scuola media, prima di preparare una lezione la “ascolto” con le orecchie dei ragazzi».
Perché hai scelto un’obesa?
«Peso 60 chili. Ma certi tratti di Caterina mi appartengono: il domandarmi “cosa penseranno di me?”, il desiderio di disinnescare gli sguardi degli altri**. Ho fatto come a teatro, dove si esagerano i gesti: ho estratto da me un disagio amplificandolo nel grasso di Caterina. E me ne sono liberato».
Quindi immedesimarti in lei ti ha “curato”.
«Mettersi nei panni degli altri fa sempre bene. Caterina soffre perché non sa farlo: pensa che nessuno la capisca, perciò rifiuta le persone, non le osserva…».
Già, come suo fratello Gionata, di cui Caterina pensa di sapere tutto, perché proietta se stessa in lui, e che invece è diversissimo e a lei sconosciuto. Ma alla fine diventa un alleato fortissimo. ***
Però a un certo punto impara, c’è il lieto fine.
«Sì, a un certo punto dice: “Vedo una folla di Cristoforo Colombo navigare in profondità, prendere verticalmente il mare”. È il momento in cui scopre se stessa come l’America. Per iniziare a stare meglio deve arrivare a vedersi e a vedere il mondo anche con gli occhi degli altri».
–
* «I cinema non sono per noi. Sugli autobus preferiamo stare in piedi, appesi come tranci da macello, e arriviamo semprew puntuali dal dottore per non dover aspettare nelle sale d’attes, perché i bordi delle cose ci trovano sempre impreparati: le sedie sono scarpe troppo piccole e le porte ci sorprendono di tre quarti, tra un profilo e un primo piano; gli ascensori non ci indovinano […]» pag. 20
–
** «Per evitare che si parli di me non manco mai. Ci sono sempre, per tenermi vicini i miei nemici, per evitare he la situazione mi sfugga di mano» pag. 15
–
*** «Sorrido, imbarazzata; ai fratelli ti offri in mutande, coi capelli in disordine, oppure vestita delle peggiori cose, ma una parola intima, profonda, se non la introduci da giovanissimi, poi è vietata per sempre. È impronunciabile» pag. 161
–
Scritto da: Francesca Magni
–
Post letto 1142 volte
Tags: Cate io, esordiente, Fazi, intervista, Matteo Cellini, obesità
Mi incuriosisce molto questo libro… soprattutto perchè scritto da un uomo nelle “scarpe” di una donna! E, ancora meglio, da un uomo esile nei panni di una donna che è esattamente il contrario…
Lo devo assolutamente leggere!
Grazie del suggerimento!
C’è sempre uno spazio silenzioso che attornia le grandi opere, che istiga uno sguardo diverso sulla realtà. Quando un libro, un quadro, un film o più in generale un’opera d’arte compie questo miracolo, siamo certi di sorprenderci davanti a qualcosa di nuovo, d’originale, di potente.
Quando ho finito il libro di Cellini mi sono interrogato sul silenzio. Non ne ho rintracciato dentro di me. E non per mancanza di concentrazione o d’abbandono, piuttosto perché mi sono reso conto d’essermi trovato davanti al libro della Veladiano “La Vita Accanto”, scritto meglio, pur nella sua mancanza di spessore.
Là incontravamo una protagonista “brutta” e qui una “obesa”, ma nella sostanza è cambiato poco.
Certo il linguaggio di Cellini nettamente superiore e più accattivante lo eleva alquanto; ma non basta a far dimenticare certe frasi, similitudini si dice sopra, che non aiutano il lettore. Semmai lo stancano. Di metafore non parlerei, non me ne ricordo. Sono proprio le similitudini il problema. E non solo dell’autore in questione, ma anche di certi romanzieri italiani (vedi Mazzantini che giusto giusto è anche il cognome di un personaggio del libro in questione) che si occupano di scrittura vacanziera. Si pensa che l’originalità debba passare per forza attraverso figure retoriche azzardate sino al grottesco, invece si finisce per creare l’effetto opposto.
Un esempio?
“… e il caffè macchia di un odore forte l’aria come un cane dalmata” (pag. 11), a parte la similitudine risicata, le macchie di caffè formano una geometria diversa dalle macchie di un dalmata;
“… poi teste e punte di nasi, progressivamente come un sole che sorge da dietro l’orizzonte…” (pag. 25);
“Quello che posso trovare in queste storie me lo porto in bocca, come quei respiratori per gli asmatici” (pag. 109);
“… perché a poco a poco un tepore dai piedi sale come una coperta morbidissima, mi avvolge, come un chierichetto che spegne tutte le candele della chiesa, alla fine della messa…” (pag. 168).
E ce ne sono molte altre, perché Cellini ha infarcito il libro di decine e decine di similitudini improbabili. E non ci ha risparmiato frasi astruse: “Alle nove e cinquanta minuti decido in mezzo a una bulimia cardiaca di battiti presi e vomitati che salirò da lei, perché questa notte non mi vedrà dall’altra parte, altrimenti.”; e nemmeno logorree della protagonista, che nulla aggiungono alla storia.
E questo per ciò che attiene al linguaggio. Aggiungerei che i registri linguistici con cui si esprimono i personaggi a volte si confondono. La protagonista e l’insegnante per esempio sembrano parlare alla stessa maniera. Altre volte s’incespica in dialoghi scialbi, discussioni poco originali (pag. 138) o patetiche (pagg. 139-140).
Ma ciò che proprio non funziona è il personaggio principale, Caterina, una ragazza obesa 17enne che pensa e parla (almeno fino a metà della storia, ma anche oltre) come se obesa non fosse, come se nella mente e nel corpo di una persona di quella stazza non scalpitassero pensieri alimentari, visioni oniriche al cioccolato e panna. Le riflessioni di Caterina sembrano esserne aliene. Non capita mai che mangi mentre cammina o rubi di nascosto una merendina, una fetta di salame per dirne una, o interrompa gli studi per farsi una scorpacciata. Pensa sempre ad altro ma mai al cibo. E cita spaziando da Fichte a Philip K. Dick, da Kubrick a John Goodman, da Marx a Rousseau come se stesse parlando di figurine panini.
In questo credo ci sia l’intemperanza dell’autore che sembra spalmare il testo di lezioni scolastiche finendo col mostrarci una Caterina che non ha metabolizzato nulla e ricorda un po’ Paloma, la divertentissima adolescente de “L’Eleganza del Riccio”. Ma in quel personaggio c’era cinismo vero, non di plastica; ma soprattutto questo cinismo poggiava su ragioni vere (il vuoto esistenziale della sua condizione familiare), e non la paura per un compleanno.
In che cosa consiste poi il supereroismo di Caterina? Per la Veladiano la sua protagonista compensava con l’olfatto e il talento musicale; qui invece si parla di neuroni che nuotano nel grasso. Ma francamente così non è.
Un altro aspetto che forse impoverisce più di tutti è l’assoluta incapacità, da parte dell’autore, di farci vivere le situazioni. Ce le spiega sempre, ce le dice ma non ce le fa vivere. Ci perdiamo tutta una serie di gag, emozioni e idee, desideri, proprio per questa eccessiva spiegazione, direi quasi accademica, da parte di tutti i personaggi della storia.
Infine, dal climax, il momento emotivo più significativo, più alto, la vicenda precipita, nel senso che langue. Decade la tensione, tutto appare già passato, concluso e invece siamo costretti ad altre logorree tutte intime e poco opportune. Il finale non rende la giusta sintesi della storia. Direi che può bastare.