un papà a impatto zero

1 dicembre 2010
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Un gruppo di ricercatori americani ha stabilito che ogni cosa ha una scadenza: tre mesi lo spazzolino da denti, tre anni lo shampoo, otto il materasso, uno il cuscino. Nell’era in cui la spazzatura ci sommerge e in India e Africa i bambini giocano tra i resti dei nostri computer, l’esito dello studio è inquietante. Sono cresciuta in una famiglia in cui buttare era sacrilegio. Mia madre si vantava di cucinare “alla Lavoisier”, dal chimico francese che nel Settecento enunciò più o meno questa legge: nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma. Lei trasformava ogni avanzo in un piatto anche più sfizioso dell’originale. Mentre mio padre trasformava qualsiasi cosa si rompesse in una cosa che si poteva usare ancora. Alla fine degli anni Settanta l’auto di famiglia era una Mini Minor di terza mano; motore perfetto, solo la carrozzeria dava segni di fatica. Un giorno papà offrì un passaggio al suo capo, e quello sedendosi si ritrovò con un piede sull’asfalto, ma lui mica si arrese: ripavimentò la Mini con una tapparella usata. Accettò di darle l’estremo saluto solo dopo che un vigile aveva fermato la mamma per dirle che le usciva un ombrello dalla fiancata. Non era la necessità di risparmiare, era uno stile di vita, una “forma mentis”. Alle cose si dava valore. Se si traslocava, i mobili di cucina venivano riadattati, le cassettiere interne agli armadi diventavano pezzi a sé con una mano di vernice e dei pomelli nuovi; le valigie ritrovavano una maniglia grazie a un giro di corda da barca (bellissima, tra l’altro). Qualche mese fa, quando l’ho visto rianimare una lavatrice dell’89, ho chiesto a papà perché non la cambiasse: «In qualche modo bisognerà pur combattere con la morte» mi ha risposto ridacchiando. Così ho capito che per lui “vita” è durare. Per noi, per me, è usare, esaurire, cambiare, ricomprare. Il brivido del nuovo che ci rinnova, la cosa diversa per sentirci diversi. Ora l’auto la prendi “in affitto” e ogni 24 mesi la cambi. Una lavastoviglie di cinque anni ti dicono che non vale la pena di ripararla perché ha raggiunto il suo limite di età. Buttare e ricomprare è anche il motore – l’unico escogitato finora – che fa girare la nostra economia. Così la legge di Lavoisier fa una triste fine: tutto si trasforma in spazzatura e in gas di scarico, che aumentano l’effetto serra. Allora qualcuno ha inventato il cosiddetto impatto zero, che significa compensare le emissioni di anidride carbonica piantando alberi (oggi molte aziende lo fanno). È un po’come peccare sapendo che dopo basta confessarsi; meglio di niente, ma mi sa che ci vuol altro. Ho letto che la persona più ricca della Cina è una donna e il suo business è riciclare carta. Possibile che non ci sia un modo anche da noi per arricchirsi riciclando, trasformando, ridistribuendo, magari anche i mobili, i vestiti, le scarpe, le auto, i giocattoli? E le aziende che vendono materiali difficili da smaltire o che eccedono con gli imballaggi non dovrebbero pagarne lo smaltimento? In Francia hanno creato la tassa picnic, per piatti e posate usa e getta. Io comincerei dalle bottiglie di plastica: si riciclano, è vero, ma solo se finiscono nel bidone giusto. Le altre le ritrovi quando vai al mare. Quest’estate sugli scogli del Salento, invece dei vetrini colorati che collezionavo da piccola, i miei figli raccoglievano bottiglie di plastica per andarle a buttare. A casa separare carta, vetro e plastica è compito loro, e mentre lo fanno fantasticano della nuova vita di quegli scarti: ho scoperto che ai bambini non piace sapere che le cose si gettano e poi non ci sono più, preferiscono immaginare che qualcuno le userà ancora. Eccolo l’impatto zero: è custodire questo modo di pensare. E quello d’altri tempi di mio padre.

(Pubblicato su Donna Moderna n. 40, 2008)

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