Storia di una dislessia – cap. 5
SIAMO TUTTI DISLESSICI?

6 maggio 2016
di Francesca Magni

Dire a qualcuno che tuo figlio è dislessico produce un doppio svelamento. Ti riveli tu, ma lo fa anche il tuo interlocutore, la sua reazione dirà a quale categoria appartiene. Ce ne sono due: quella di chi sa di cosa stai parlando, e quella di chi non ne sa niente, non se ne è mai interessato ma ne ha sentito parlare, e pensa con sarcasmo “Possibile che siano tutti dislessici?!”. Glielo leggi nello sguardo, quali che siano le sue parole; è scettico perché ignorante (non sa), è malfidente (infastidito, dietrologo, armato di pregiudizio), non è curioso (il problema non lo riguarda) e a volte è tutte e tre le cose insieme. La mia analisi è circostanziata: sono stata anch’io quell’interlocutore. Finché una psicologa dallo sguardo azzurro ha detto a me e a mio marito che nostro figlio di 12 anni, piombato in crisi con lo studio del tedesco, poteva essere dislessico.

La sensazione che all’improvviso siano tutti dislessici è data dal fatto che solo da pochi anni in Italia si fanno le certificazioni di DSA (la legge che riconosce i Disturbi Specifici di Apprendimento è del 2010*), con le quali molti di quelli che “è intelligente ma non si applica” trovano una spiegazione alle loro difficoltà. In Italia i dislessici sono circa il 5% della popolazione scolastica (negli Usa il 15%, il 10% in UK), anche se la cifra si riferisce ai casi certificati ed è possibile (più che probabile) che i casi reali siano ben di più.

“Possibile che siano tutti dislessici?!”.

Chi ancora lo pensa con sarcasmo non sa di avere paradossalmente ragione. Personalmente ne sono convinta: ognuno di noi ha una sua disabilità intellettiva, una piccola, magari minima, circoscritta, ‘sui generis’, ‘dislessia’. Provate a pensarci: vi aiuterà a capire di cosa stiamo parlando.

C’è chi non memorizza i numeri di telefono o non sa trascriverli senza invertirli, chi non sa i nomi delle vie, nemmeno di quelle attorno a casa sua, o delle persone che vede spesso ma con cui non ha rapporti stretti, chi non memorizza i nomi geografici, chi fatica a ricordare come sono posizionati est e ovest, chi è insicuro su concetti come destra e sinistra, chi non ha la percezione di quanto siano dieci minuti o un’ora, chi è lentissimo a leggere, chi non sa minimamente dire quanto sia alto un mobile o larga una stanza, chi non impara l’inglese sebbene lo studi da una vita, chi sbaglia i calcoli a mente, chi sa suonare o cantare ma non è mai riuscito a riconoscere le note sul pentagramma, chi quando scrive inverte alcune lettere o lo fa quando legge, chi fatica a riferire un messaggio ricevuto per telefono, chi non sa posizionare una scritta al centro di un foglio bianco, chi legge nella mente ma ad alta voce si impappina, chi non sa trascrivere un numero da una segreteria telefonica, chi si sente perduto di fronte ai linguaggi tecnici, quello economico o delle assicurazioni, per esempio.

Queste comuni difficoltà di apprendimento e memorizzazione, che tutti noi consideriamo (e sono) perfettamente nella norma, assomigliano in scala ridotta a quello che prova un bambino dislessico. Solo che nella vita adulta sono piccoli handicap facilmente gestibili e aggirabili, sono difficoltà limitate ad attività minime, mentre per un bambino in età scolare difficoltà analoghe, talvolta sommate fra loro, rendono faticosissimo il percorso scolastico; costringono il bambino a sforzi immani per molte ore in cambio di miseri risultati, perché interferiscono con i meccanismi di apprendimento di base che sono il cuore della prima formazione scolastica.

Immaginate di essere il tipo che non ricorda i nomi delle vie ed è costretto a fare il tassista. O quello che non riesce a dare una misura a stanze e oggetti ed è costretto a fare il geometra o l’architetto. No, non sono esempi strampalati, è proprio così che si sente un bambino dislessico: è costretto a fare proprio quello che non gli riesce (che sia leggere, scrivere correttamente, fare calcoli, imparare la geometria) ed è costantemente giudicato per i risultati che ottiene.

Ok, direte voi, ma oggi, a chi ha una certificazione di DSA, si danno i cosiddetti strumenti compensativi: la calcolatrice, le tabelle con le formule matematiche, il tempo in più per le verifiche in classe, il correttore automatico per l’ortografia, il sintetizzatore vocale per la lettura. Vero. E non fanno che sottolineare che il dislessico è diverso dagli altri. Ha bisogno di una stampella.
Invece il bambino dislessico è come gli altri, diventerà uno degli adulti che ho elencato sopra, perché nel tempo molte cose le compenserà, troverà strategie, gli rimarranno solo tracce del disturbo di apprendimento che, finché è bambino, lo fa sembrare così diverso; e comunque saprà come gestirlo; d’altra parte il bambino che sembra ‘normale’ e al quale non si danno strumenti compensativi scoprirà, magari da grande, di avere o avere avuto anche lui il suo micro disturbo di apprendimento, la sua piccola fatica, forse ci riderà, penserà ecco perché facevo così fatica in geometria. E avrebbe potuto non farla.

Così, compiuto un anno come mamma di un ragazzo dislessico, la domanda che mi faccio è: perché non dare a tutti questi strumenti compensativi? Perché non trattare tutti allo stesso modo ed elaborare una didattica che non ghettizzi i dislessici certificati (solo a loro si possono dare gli strumenti compensativi), ma sia anche per loro, agevolando l’apprendimento di tutti allo stesso modo?

Una delle cose che scopri quando hai un figlio dislessico sono le mappe concettuali. È un modo di studiare che non pretende di inculcare le nozioni in quanto tali ma le unisce in una struttura grafica piena di collegamenti che aiutano a memorizzare. È l’uovo di Colombo. Chiunque di noi si sia laureato o abbia studiato seriamente in una scuola superiore ci è arrivato anche da solo: se fai schemi e colleghi le nozioni contestualizzandole e inglobandole in una struttura visiva, impari più in fretta e meglio.

Entusiasta per la scoperta dei software per creare mappe concettuali (costosissimi, ça va sans dire), mio marito ne parla con la cognata americana che insegna letteratura in una highscool. Lei non capisce tanto stupore: «Noi le usiamo da sempre per tutti gli studenti» dice con ovvietà. Ecco: per tutti.

*

È dell’8 ottobre 2010 la Legge n. 170 che prevede “Nuove norme in materia di disturbi specifici di apprendimento in ambito scolastico”, in pratica riconosce dislessia, disortografia, disgrafia e discalculia come Disturbi Specifici dell’Apprendimento (DSA), “Che si manifestano in presenza di capacità cognitive adeguate, in assenza di patologie neurologiche e di deficit sensoriali, ma possono costituire una limitazione importante per alcune attività della vita quotidiana” (Art. 1). Da quando è entrata in vigore la legge, le scuole sono tenute a compilare il cosiddetto PDP, Piano Didattico Personalizzato, in cui si indicano, per ogni ragazzo dislessico, le specifiche misure compensative e dispensative.

>>continua qui

E qui tutti i capitoli della storia:

Storia di una dislessia – cap. 1 EPIFANIA

Storia di una dislessia – cap. 2 CREDEVO DI ESSERE SCEMO

Storia di una dislessia – cap. 3 È QUALCOSA

Storia di una dislessia – cap. 4 LA MALEDIZIONE DEI NOMI PROPRI

Storia di una dislessia – cap. 5 SIAMO TUTTI DISLESSICI?

Storia di una dislessia – cap. 6 COSA PROVA UN DISLESSICO A SCUOLA

Storia di una dislessia – cap. 7 LA CERTIFICAZIONE: OGGI È UN MALE NECESSARIO

Storia di una dislessia – cap. 8 GRAMMATICA DRAMMATICA

 

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