la donna e Gerusalemme
(Amos Oz Il monte del cattivo consiglio)

4 dicembre 2011
Scritto da: Mara Marantonio

(Feltrinelli, 2011, pp. 231, €. 17,00, traduzione di Elena Loewenthal. Titolo originale: Har ha’etsah hara’ah, 1974; The hill of evil counsel, 1976). Tre lunghi racconti compongono quest’opera di Amos Oz, pubblicata da Feltrinelli lo scorso ottobre, ma scritta tra il 1974 e il 1975, quando cioè lo scrittore israeliano, pur poco più che trentenne, aveva già raggiunto la maturità poetica ed espressiva. Dopo aver approfondito un classico come “Una storia di amore e di tenebra” (2001), è emozionante leggere ORA pagine redatte quasi un quarantennio fa. Non si tratta di compiere un esercizio stilistico o ermeneutico, bensì di rivivere l’esperienza esistenziale dell’Autore, cercare quali temi egli ha ripreso nel corso degli anni, quali percorsi ha interrotto, modificato, sviluppato.
Tre novelle, intrecciate tra loro in una mirabile unità spazio-temporale, caratterizzate da due figure/mondo legate, a loro volta, l’una all’altra. Per il lettore, una scoperta graduale. Una fiamma di vita che arde, senza mai spegnersi, come nell’immagine di copertina nell’edizione italiana.
La prima figura è la Città di Gerusalemme, ritratta nel biennio convulso che precede la (ri)nascita dello Stato di Israele, in un ambiente di forte tensione e di consapevolezza che qualcosa di importante stia per accadere. “Il Monte del Cattivo Consiglio” è il racconto d’apertura -il più ricco di spunti autobiografici- che dà il titolo al volume. Maggio 1946. Nella Città Santa sono in corso i festeggiamenti per il primo anniversario della vittoria alleata. La celebrazione congiunta Britannici / Ebrei mostra, al di là delle apparenze, come l’evento non sia affatto condiviso. Da una parte c’è la potenza coloniale inglese, consapevole sì che i tempi gloriosi sono alle spalle, ma, ciononostante, ancora legata a comportamenti improntati ad una malcelata arroganza nei confronti della locale comunità ebraica; dall’altra i rappresentanti sionisti, forti del proprio orgoglio nazionale. A seguito di un casuale episodio conosciamo la famiglia Kipnis. Il Padre veterinario (Hans), originario della Slesia, taciturno, amante dei libri e del suo nuovo Paese; la madre (Ruth), nata a Varsavia, donna affascinante, misteriosa, dal “sorriso autunnale”, mai ambientatasi in Eretz Israel, e il piccolo Hillel, l’A. adombrato. Il ragazzo è la voce narrante che si esprime in terza persona allorché si riferisce a se stesso. La città, quel suo clima speciale vissuto attraverso occhi e sensibilità infantili (come nel racconto successivo), sono espressi con immagini di intensa poesia, in un linguaggio ricco di sfumature. Gerusalemme dai vasti spazi, alture, fiori, giardini; ci troviamo in città, ma sembra di stare in campagna o in un luogo selvaggio, dove puoi perfino trovare pezzi d’ossa di un soldato turco. La Donna è la seconda figura/mondo dell’opera: sempre desiderata, ma destinata ad essere perduta, specie nel primo e nell’ultimo racconto. Come la mamma di Hillel, imprevedibile e lontana, fuggita all’improvviso, non ha qualcosa in comune con Fania Mussman, madre del piccolo Amos Klausner, poi Oz, il cui compagno agognato -e poi raggiunto una notte, in “quella stanza che dava sul cortile dietro casa di Haya e Zvi”- altri non era che il…sonno eterno?
Nel secondo racconto, “Il Sig. Levi”, la voce narrante è un ancora un ragazzo, a sua volta con un nome legato al sacro, alla tradizione biblica: Uriel, il quale vive in un quartiere, presso Via Sofonia, costruito lungo il pendio di una collina dalla quale sono visibili i monti intorno a Gerusalemme. Il luogo è popolato da personaggi stravaganti, che paiono nascondere antichi segreti. Aleggia ovunque un che di trascurato, provvisorio -come quelle baracche, adibite a deposito, costruite col legno delle casse in cui la gente “aveva trasportato le sue cose dalla Russia e dalla Polonia”-. Senti ristagnare nell’aria odore di cavolo. Il salotto della casa in cui Uriel vive coi genitori è un ambiente luminoso, ricco di libri e di spirito sionista…Il ragazzo sogna di diventare un partigiano combattente, ma i suoi sogni di gloria guerresca sembrano essere infranti da un evento improvviso dal quale egli è escluso ad opera degli adulti, con sua grande frustrazione. Mai verrà a sapere se quell’indecifrabile personaggio giunto un giorno nella loro casa e ben presto scomparso, nascosto in cantina o chissà dove, fosse davvero un certo Sig. Levi, come i genitori lo avevano chiamato, o piuttosto il mitico comandante della Resistenza ebraica contro gli occupanti britannici, del quale tutti parlano.
L’ultimo racconto, “Nostalgia”, il più intenso e drammatico, ha un passo differente. Si articola sotto forma di alcune lettere che, a inizio autunno 1947, un medico quarantenne di origine viennese, Emanuel Nussbaum, malato terminale di cancro, indirizza idealmente alla donna che ha molto amato -e ancora ama-, una dottoressa dal carattere forte e deciso, Hermina (Mina) Oswald, ora lontana da lui, forse ancora nella città di Haifa, o magari già negli USA, impegnata per un ciclo di conferenze. Attraverso le parole di Emanuel Mina prende vita al punto da divenire più reale di quanto non lo sarebbe se si trovasse, di persona, a pochi passi da lui. Anzi ella, per lo più percepita come fredda, disincantata, con quel suo spegnere la sigaretta “come se volesse piantare una vite di ferro sul fondo del posacenere”, talora è immaginata, in modo quasi palpabile, come vicina e calda. Solo nel crepuscolo, impegnato a sfruttare al massimo la luce del sole, egli scrive una sorta di confessione su di sé, sulla donna e su Gerusalemme, su quanto siano cambiati -e stiano cambiando- da un punto di vista antropologico -e pure fisico- le nuove generazioni di coloro che sono nati nella Terra dei Padri. Mina e la città sono quasi un unico essere, avvolte da uno struggimento che le fa apparire vicine e lontane al tempo stesso: “Il tramonto comincia presto e la fiamma è più opaca del solito…forse anche disperata, un ardore amaro come l’ultimo atto d’amore, che è animato di furia perché è l’ultimo e non ve ne saranno altri”. In Emanuel c’è forte passione, ma altresì un malinconico, pur lucido, distacco, dato dalla consapevolezza che non vedrà il futuro che si sta preparando. Colori sfumati, ma talvolta intensi al punto da indurre il protagonista ad uscire per essere, a sua volta, partecipe dei cambiamenti della città durante la giornata, mutamenti simili alle variazioni d’umore di una persona. Della donna amata, anzitutto; alla quale, nonostante egli sappia di essere prossimo alla fine, anzi proprio per questo, non rinuncia, attraverso quelle lettere, a comunicare se stesso, a narrare, a ripercorrere le tappe della loro storia d’amore (e della sua malattia) per mantenersi vivo.

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