non ci resta che resistere
(Valeria Parrella Lettera di dimissioni)
Valeria Parrella, Lettera di dimissioni (Einaudi, 2011, € 18,50). Comincia da lontano, Valeria Parrella. Dai nonni, un po’ anche i bisnonni, materni e paterni, e poi la madre, il padre e via a scendere fino a Clelia. Leggi settanta pagine e ancora non sai dove vuole arrivare, ma scrive così bene e così forte che ti abbandoni al suo andare. La costruzione di una famiglia, la composizione dei caratteri, delle storie, azioni e reazioni che si susseguono in linea discendente, sono qui necessari per affrescare un interno (e lo si intenda come nome collettivo) nell’Italia degli ultimi ottant’anni. Ma è a pagina 74 che ho iniziato a capire: questo libro è la storia di quello che l’Italia è diventata. Appare chiaro quando Clelia e le amiche in vacanza a Gallipoli raggiungono con una lunghissima nuotata la spiaggia della masseria dove villeggia il presidente del Consiglio con “famiglia e famigli”, uno che ama andare in bicicletta e sembra incline ai bagni di folla, ma fa vacanze circondato da un esercito di guardie, e no, non risponde alle domande che le ardite nuotatrici di belle (e impegnate) speranzo gli hanno preparato, «tipo perché mio fratello Alessandro era dovuto emigrare ad Alzano Lombardo per fare il maestro di scuola materna». Però è gentile, il presidente del Consiglio, e sua moglie regala loro una bibita.
Ecco, l’ho capito lì, dove finiva questa storia. Finiva a casa mia e a casa di molti di noi che non abbiamo mai cercato scorciatoie, che timbriamo il biglietto sull’autobus, che se facciamo un esame vogliamo superarlo in modo pulito. Noi che un tempo eravamo comunisti nel senso dell’onore, comunisti come lo si era nel Sessantotto, comunisti perché poveri e onesti, con un apparato interno bianco e integerrimo, idealista e anche un po’ intransigente. Comunisti come i genitori di Clelia, che pagano il biglietto per fare entrare i figli all’acquario civico di cui lei è dipendente, comunisti come Clelia e il fidanzato Gianni, che vivono in quarantadue metri quadri in cui sostenersi «l’un con l’altra come due carte da gioco poggiate in piedi», e se c’è da superare l’esame di avvocato, Gianni ci va da solo pur sapendo che «lo stavano aspettando per compatirlo, per fare numero di bocciature adeguato, percentuale, proporzionale al totale di promossi inevitabili», quelli che all’esame ci vanno con l’ “avvocato protettore”.
C’è lo sguardo cristallino sul mondo di chi non vuole altro che poter vivere da uomo onesto. Ci sono i sogni – quello di Clelia è il teatro, e si realizza: una sua pièce va in scena e poi altre, festival, locandine appese alle pareti colorate per non vedere che la casa è senza mobili. Poi arriva un incarico importante, la notorietà nello star system culturale, le luci del successo, ottenute anche grazie al fatto di essere donna, che ci sta bene, e giovane, che ci sta ancora meglio, acclamata e funzionale, per un po’. Finché non serve più. Perché «loro guardano all’oggi, mica al domani»: loro che sono i dirigenti di questo paese, tutti quelli che hanno sostituito il guadagno all’etica, il clamore di un momento alla semina per il futuro, il privato al pubblico. «Le cose non si compiono all’improvviso, ma all’improvviso le vedi nel loro intero», ed eccole qui. Però sai, e questo fa male, che «c’è stato un istante almeno, in cui il dolore collettivo si sospendeva, e forse era sull’ultima sillaba, quando i polmoni tesi allo spasmo non lasciavano spazio ad altri pensieri. E allora entrava la speranza».
Questo romanzo magnifico è il canto dolente di tutti noi che pur amando follemente il nostro paese, vorremmo dimetterci. «Quando il confronto è impossibile, non fare niente è ancora la forma più efficace di azione politica». Resistenza individuale. L’impegno civile ce lo hanno ucciso, disinnescato fra le mani come una bombetta di carnevale e ci raccontiamo che l’unico piano su cui si gioca la partita è «la responsabilità personale». Già, finisce con queste parole, Lettera di dimissioni. E quanto vorremmo un finale altrettanto vero, ma radicalmente diverso.
Scritto da: Francesca Magni
–
Post letto 1432 volte
Tags: comunista, Einaudi, impegno politico, Italia, Lettera di dimissioni, Napoli, teatro, Valeria Parrella
Lo sto leggendo in questi giorni, centellinando le righe, le parole, quasi le sillabe che l’autrice ha composto con cura.
La densità della scrittura in questo, come in altri libri della Parrella, si esprime attraverso la necessità di ogni frase. Non c’è mai una riga di troppo. Ogni personaggio compone un pezzettino della figura intera nella narrazione.
Me la ricordo, te l’avevo già accennato forse, al Festival di Mantova anni fà, parlare della suo mestiere di scrivere in termini di gioia e privilegio, soddisfazione legata al lavoro. C’è tutto, pure in questa storia sofferta e in questo travaglio politico, che alla polis appartiene e viene resitituito.
Bellissima recensione, molto sentita, molto tua. Soprattutto metterò al più presto il libro tra le mie prossime letture, visto che della Parrella ho sentito molto parlare ma non ho mai letto nulla.
Sento di dover dire un grazie a Valeria Parrella: per il coraggio di dare parole non banali, non aggressive, non disfattiste, non lamentose a un sentimento grave che credo affligga una enorme fetta di italiani. Forse la maggioranza?
Confesso che anche per me era il primo libro della Parrella, benché abbia “Mosca più balen”a sul comodino – o ormai dovrei dire sotto il comodina, che si è trasformato in una enorme lista di “desiderata” letterari.
Questo libro mi ha colpita anche per la scrittura che è tagliente e avvolgente insieme, che mescola linguaggio emotivo e lucida analisi e qua e là sparge fiocchi di gergo napoletano che rendono il tutto più autentico, proprio come avviene nelle nostre vite.
Ci si dimette da un incarico, da un compito assegnato. Non ho letto, ancora, il libro della Parrella. Sono riluttante, perché sento la questione fin troppo vicina. Me ne accorgo quando mio figlio tredicenne, che sogna di fare l’elicotterista di pronto soccorso alpino, mi chiede quanto si guadagna a fare un mestiere così. E provo una stretta al cuore, perché è chiaro che né io né Parrella né tutti noi, siamo riusciti a dare ai nostri ragazzi qualcosa in cui valga davvero la pena di credere, un esempio da seguire, un sogno per cui combattere. La distanza apparente tra quella domanda svilente e la rabbia impotente dei coetanei che hanno bruciato Roma, è tutto quel che ci resta. Un cumulo di macerie morali, del quale ci sentiamo al tempo stesso colpevoli e innocenti. Forse il problema sta proprio lì: ci siamo dimessi, perché abbiamo capito che non eravamo all’altezza del compito, perché i tempi non erano alla sua altezza. E così ce ne andiamo, pieni di rassegnata amarezza, a cercare almeno un mestiere utile e onesto per i nostri figli, lontano dalla mascherata oscena e vociante che è diventata la nostra Italia. Si ritorna ai fondamentali, a un minimo comune denominatore. Con una domanda che batte nella testa. Quel compito, forse, non ce lo siamo mai dati da noi, non lo abbiamo mai davvero assunto in prima persona. Non ci si dimetterebbe dal proprio destino.
Leggendo il libro non ho pensato che il messaggio fosse “dimettersi dal proprio destino”. Al contrario. La Parrella è partita da lontano per raccontare un’evoluzione che non è stato possibile arrestare. Racconta un impegno incessante per fare la propria parte, per continuare a essere diversi nonostante gli altri e le storture, una titanica spinta contro il degenerare della classe dirigente e di chi la elegge. Gianni, che nel libro è il fidanzato di Clelia, accetta di essere bocciato tre volte all’esame di avvocato solo perché non vuole fare come gli altri, che ci vanno con l’avvocato che li “protegge”. Ma quante volte può continuare a farsi bocciare? Alla fine si piega, chiede la raccomandazione e puntualmente passa l’esame. Ecco, questo non lo considero dimettersi dal proprio destino. Come non lo è il gesto di Clelia nel finale del libro. Lo chiamerei piuttosto passare in clandestinità: spostare l’agire su un piano “micronizzato”, quello della resistenza individuale. Resa? non direi: è il grido semmai che si arrende, è la lotta che da attiva si fa passiva, è la voce che tace. Ma a volte tacere è il solo modo per farsi sentire. Non ci si dimetterebbe dal proprio destino, ma a volte si viene licenziati. E allora si parte a cercarsene un altro dove si può, come si può.
Ecco, l’ho finito, purtroppo.
E mi sono fatta un’idea del prenderla tanto da lontano, di tutte le tessere del domino messe in fila. Mi sono detta che per quanto si parta bene, si sia educati con attenzione, ci siano i migliori presupposti, si abbia cura delle proprie radici, si coltivi l’etica nella pratica e si creda fermamente di agire nel migliore dei modi, per quanto si lavori duramente e ci si provi, a non piegarsi, in realtà, questo avviene, in mille piccoli modi che solo “all’improvviso vedi per intero”. Il momento della rivelazione colpisce la prima tessera, che travolge tutte le altre. Sconfiggendo un disegno, quello da cui la meravigliosa citazione di Hanna Arendt in apertura “Chi sceglie il male minore dimentica rapidamente di aver scelto a favore di un male”, dovrebbe allertare.
Questo libro, a me, dice soprattutto di non abbassare la guardia.
Seguo la Parrella da Mosca + Balena e la trovo davvero vera. Soprattutto per la sua capacità rara di porsi per sottrazione. Ma anche per la semplicità e veridicità delle emozioni che sono sempre credibili. Non un calcio sui denti sempre disperato alla Mazzantini, non per forza orientate al sorriso. Lo spazio bianco – romanzo del 2008 da cui è stato tratto un film – attiva emozioni negative ma concrete, verosimili. Una penna che sa illuminare senza accecare. Faccio e farò per lei un tifo sfegatato!
Lo sto leggendo, libro magnifico, ringrazio la cara amica che me lo ha regalato a Natale :)) La scrittura della Parrella incanta, è densa, corposa, piena di virgole. Ci sono frasi che devo leggere e rileggere per comprendere a fondo eppure questa apparente complicazione rende la sua scrittura unica.