lui, lei e il dolore
(Ian McEwan Bambini nel tempo)
Mi hanno chiesto di scrivere un pezzo/racconto sull’essere madre per una antologia di scritti di donne di vari Paesi. In cerca di ispirazione, ho ripreso in mano un libro che non ho mai finito, Bambini nel tempo di Ian McEwan (Einaudi, 1987, traduzione di Susanna Basso). Forse conoscete la storia: c’è un padre che va al supermercato con la figlia di cinque anni e lì la perde. La tragedia (alla quale non ho retto tant’è che nonostante la ricchezza ipnotica di McEwan, la prima volta l’ho mollato a metà) devasta la coppia dei genitori, «Non potendo dare né chiedere un po’ di conforto, non si desideravano» (pag. 50). McEwan ci porta in una spirale che scende verso il basso, in riflessioni sempre più intime, sotterranee, sul senso delle nostre relazioni ma anche delle nostre abitudini mentali e delle nostre stesse nature. E a pagina 51 arriva a definire la differenza, secondo me ultima, fra uomini e donne. Mi sono sentita descritta al punto da provare una specie di commozione. Vi regalo un paio di brani, e vi consiglio il libro se non lo avete letto; io sono arrivata in fondo saltando qualche passo, quando l’identificazione con lo strazio per la perdita di una figlia (oltretutto senza spiegazioni) mi piegava. E il finale è poesia, carnalità e poesia.
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«Non che lei fosse immune da confusioni o atteggiamenti irrazionali, ma possedeva l’indistruttibile, utilissima capacità di comprendere e presentare le proprie rovine in modo da farele apparire come stati di un’educazione sentimentale e spiriturale. Nel suo caso, le certezze di un tempo non venivano rifiutate in blocco, ma piuttosto riordinate, un po’ come le rivoluzioni scientifiche ridefinivano, anziché scardinare, tutto il sapere che le aveva precedute. Ciò che a Stephen era sembrato contraddittorio, per lei era semplicemente una forma di crescita intellettuale» (pag. 51).
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«Se un tempo aveva creduto, o almeno pensato di dover credere, che al di là delle ovvie differenze fisiche, uomini e donne fossero essenzialmente identici, adesso sospettava che una delle tante caratteristiche che li distinguevano fosse appunto il rispettivo atteggiamento nei riguardi delle trasformazioni. Superata una certa età, gli uomini subivano un processo di congelamento, erano portati a credere che, anche nelle avversità, si sarebbero in qualche modo trovati a ricoprire il ruolo che il destino aveva loro assegnato. Perché loro erano quel che pensavano di essere. A dispetto di tutti i discorsi, gli uomini credevano in ciò che facevano e vi si aggrappavano. Il che era al tempo stesso una forza e una debolezza.
[…] le donne opponevano un diverso principio di individualità in cui l’essere veniva prima dell’agire. Molto tempo fa gli uomini avevano interpretato tutto ciò come sovversivo. Le donne semplicemente racchiudevano quello spazio che l’uomo desiderava penetrare. Fu questo che suscitò l’ostilità maschile» (pag. 52).
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Tags: Bambini nel tempo, Einaudi, figli, Ian McEwan, uomini e donne
L’ho letto molto tempo fa. Un libro veramente doloroso da leggere ma la scrittura di Mc Ewan conquista. Il finale poi…indescrivibile. Ne conservo intatta la memoria nonostante siano passati molti anni.
Sì, lettura dolorosissima, ho impiegato anni (con lunga pausa in mezzo) a portarlo a termine. McEwan ha la specialità di metterci di fronte a situazioni estreme per analizzare – con una autentica autopsia – il percorso delle nostre reazioni. Tra i suoi il libro che ho preferito però è “L’AMORE FATALE”, un titolo da leggere nella sua accezione più profonda che superificiale… Ricordo come indelebile la scena iniziale in cui un gruppo di uomini corre in sorrorso di un pallone aerostatico che non riesce ad atterrare e viene trascinato in alto dal vento: sono in molti ad apperdersi per fare zavorra, ma via via che il vento sembra avere la meglio tutti mollaano: tranne uno… Da questa situazione estrema una serie di reazioni a catena che sconvolgono la vita di due famiglie. Perché quell’uomo non ha lasciato la presa? Quali calcoli si sono svolti nei meandri del suo pensiero razionale e quali, a sua insaputa, nel suo istinto inconsapevole? E cosa avremmo fatto noi, al suo posto?
Un libro bellissimo, dolorosissimo per chi ha già dei figli, per chi li ha persi anche per una o più interruzioni di gravidanza, per chi non li ha ancora, non li avrà mai o non li desidera affatto. È un libro costruito sull’ossimoro, sull’amarissima dolcezza, sulla morte generatrice. McEwan non lascia il lettore nella disperazione, ma all fine, inaspettata, trionfa la speranza e la vita in ogni senso. Grazie ad Adele che me l’ha consigliato.
Contenta che ti sia piaciuto, libro splendido seppure doloroso. Ciao vicina!
«Ogni vuoto (non accettato) produce odio, amarezza, rancore. In qualsiasi situazione, se si ferma l’immaginazione si forma un vuoto. (…) Sospendere continuamente in se stessi il lavoro dell’immaginazione che colma i vuoti (…)».
«Il desiderio racchiude in sé qualcosa dell’assoluto e se fallisce (una volta esaurita l’energia) l’assoluto si trasferisce su l’ostacolo. Stato d’animo dei vinti, degli oppressi. (…) L’energia liberata dalla sparizione di oggetti che costituivano dei moventi tende sempre ad andare più in basso. I sentimenti bassi (invidia, risentimento) sono energia degradata (…) Una persona amata che delude. Gli ho scritto. Impossibile che non mi risponda quel che ho detto a me stessa in nome suo. Gli uomini ci debbono quel che noi immaginiamo ci daranno. Rimettere loro questo debito. Accettare che essi siano diversi dalla nostra immaginazione (…) Anch’io sono altra da quella che m’immagino d’essere. Saperlo è il perdono».
«Si è legati al possesso di una cosa perché si crede che, se si cessa di possederla, quella non esista più. (…) c’è una totale differenza fra l’annientamento di una città e il loro esilio definitivo da quella medesima città (… ) Ogni dolore che non si distacca è un dolore perduto. Nulla di più orribile; deserto freddo, anima che si dissecca (…)».
«Al presente, ci siamo legati. L’avvenire, lo fabbrichiamo nella nostra immaginazione. Solo il passato, quando non lo rifabbrichiamo, è realtà pura».
(da L’ombra e la grazia, Simone Weil)
“Sospendere il lavoro dell’immaginazione che colma i vuoti”. Accettare il vuoto senza colmarlo di una spiegazione. In questo solo concordo con Simone Weil. Questo è il perdono, questo dà pace.
La pace arriva quando si sono piante tutte le proprie lacrime. E si sente che alcuna consolazione è ormai possibile. Interviene allora una consolazione ineffabile, alla quale non si può dare spiegazione. Ma quel momento può non arrivare mai. Si può piangere per tutta una vita, eternamente sconsolati. Un vuoto che appesantisce, non ci solleva. Sempre pronto a farsi rancore, odio.
Dedicata a tutti gli animali notturni e inquieti. E anche agli altri.
Silenzio e profondissima quiete
Dicono regni negli spazi eterni:
Ma donde allora il vento di zaffiro
Che gonfia questa immensa vela – il cielo?
Ed essa muove il fragile vascello
Dei nostri dolori, indegni
Di tanto volo.
(Tommaso Landolfi)
Credo non esista quasi nulla di cui non ci si consoli. Ê il mutamento connaturato all’uomo garanzia di consolazione. Bellissimi questi versi