lui, lei e il dolore
(Ian McEwan Bambini nel tempo)

21 settembre 2011

Mi hanno chiesto di scrivere un pezzo/racconto sull’essere madre per una antologia di scritti di donne di vari Paesi. In cerca di ispirazione, ho ripreso in mano un libro che non ho mai finito, Bambini nel tempo di Ian McEwan (Einaudi, 1987, traduzione di Susanna Basso). Forse conoscete la storia: c’è un padre che va al supermercato con la figlia di cinque anni e lì la perde. La tragedia (alla quale non ho retto tant’è che nonostante la ricchezza ipnotica di McEwan, la prima volta l’ho mollato a metà) devasta la coppia dei genitori, «Non potendo dare né chiedere un po’ di conforto, non si desideravano» (pag. 50). McEwan ci porta in una spirale che scende verso il basso, in riflessioni sempre più intime, sotterranee, sul senso delle nostre relazioni ma anche delle nostre abitudini mentali e delle nostre stesse nature. E a pagina 51 arriva a definire la differenza, secondo me ultima, fra uomini e donne. Mi sono sentita descritta al punto da provare una specie di commozione. Vi regalo un paio di brani, e vi consiglio il libro se non lo avete letto; io sono arrivata in fondo saltando qualche passo, quando l’identificazione con lo strazio per la perdita di una figlia (oltretutto senza spiegazioni) mi piegava. E il finale è poesia, carnalità e poesia.

«Non che lei fosse immune da confusioni o atteggiamenti irrazionali, ma possedeva l’indistruttibile, utilissima capacità di comprendere e presentare le proprie rovine in modo da farele apparire come stati di un’educazione sentimentale e spiriturale. Nel suo caso, le certezze di un tempo non venivano rifiutate in blocco, ma piuttosto riordinate, un po’ come le rivoluzioni scientifiche ridefinivano, anziché scardinare, tutto il sapere che le aveva precedute. Ciò che a Stephen era sembrato contraddittorio, per lei era semplicemente una forma di crescita intellettuale» (pag. 51).

«Se un tempo aveva creduto, o almeno pensato di dover credere, che al di là delle ovvie differenze fisiche, uomini e donne  fossero essenzialmente identici, adesso sospettava che una delle tante caratteristiche che li distinguevano fosse appunto il rispettivo atteggiamento nei riguardi delle trasformazioni. Superata una certa età, gli uomini subivano un processo di congelamento, erano portati a credere che, anche nelle avversità, si sarebbero in qualche modo trovati a ricoprire il ruolo che il destino aveva loro assegnato. Perché loro erano quel che pensavano di essere. A dispetto di tutti i discorsi, gli uomini credevano in ciò che facevano e vi si aggrappavano. Il che era al tempo stesso una forza e una debolezza.

[…] le donne opponevano un diverso principio di individualità in cui l’essere veniva prima dell’agire. Molto tempo fa gli uomini avevano interpretato tutto ciò come sovversivo. Le donne semplicemente racchiudevano quello spazio che l’uomo desiderava penetrare. Fu questo che suscitò l’ostilità maschile» (pag. 52).

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