Un libro (anche) sulla Libia da leggere adesso
(Hisham Matar Il ritorno )

4 agosto 2018

Scritto da: Francesca Magni

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Hisham Matar, Il ritorno. Padri, figli e la terra fra di loro (Einaudi, 2017, po. 246 €19,50).

Da quando ho smesso di scrivere recensioni per un giornale e non sono più costretta ad annaspare nel mostruoso gorgo delle novità ingoiando acqua buona e cattiva non in egual misura, sono tornata al senso primigenio della lettura. Quello che fa di un lettore un cane che si muove a zigzag, il naso a terra, in cerca dei suoi personali tartufi. Del resto l’attualità dei libri è assai più longeva di quanto i magazzini bulimici delle case editrici vogliano farci credere e di quanto il loro vomitare titoli per ingurgitarne di nuovi ci condanni a pensare. E “il titolo del momento”, mediaticamente parlando, è un concetto governato da logiche troppo casualmente legate alla qualità perché abbia senso assecondarle. Ho letto Il ritorno di Hisham Matar a un anno dalla pubblicazione in Italia e a due dalla prima stampa inglese, ma sono convinta che sia esattamente adesso il momento di leggerlo, se non lo si è già fatto.

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Che paese è la Libia? Che conflitti scorrono nel sangue di chi la abita? Che popolo sopravvive in un paese uscito dal dominio ottomano per mano massacratrice dei conquistatori italiani nel 1911 con Giolitti, poi con Mussolini, infine soggetto a una ventennale monarchia corrotta e in seguito a 40 anni del regime di Gheddafi sbriciolatisi in una efferata confusione politica che fa persino rimpiangere ad alcuni le maniere del Colonnello? Un paese in cui il piccolo Hisham, (che ci ha vissuto per una manciata di anni prima della fuga in Egitto, quando il padre Jaballa era ormai un dissidente temuto e minacciato), andava a comprare col padre, di nascosto, sacchettate di libri proibiti – e stiamo parlando di autori come Vargas Llosa.
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Ogni paese è “sintomo” della sua storia, e se questo tristemente vale oggi per noi, altrettanto tristemente vale per la Libia, e Il ritorno di Matar ne restituisce una sensazione profonda che non certo i giornali ma nemmeno la letteratura che abbiamo a disposizione in Italia sa dare.
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Eppure, tecnicamente, Il ritorno è un’autobiografia (categoria per la quale ha vinto il Pulitzer) del momento in cui nel marzo del 2012, dopo 33, e dopo 22 dalla sparizione del padre, Hisham torna in Libia, con la madre, la moglie americana Diana e il fratello Ziab, che li ha preceduti. Il racconto corre avanti e indietro nel tempo – più calamitato dal passato, a dire il vero, come calamitato è lo stesso Hisham che non riesce a prendere congedo (e come potrebbe?) dal padre. Arrestato nel marzo del 1990, chiuso nel temuto carcere di Abu Salim a Tripoli, era riuscito fra incredibili pericoli a far avere notizie alla famiglia fino al 1996. Poi silenzio. Anche il fratello minore, zio di Hisham, e alcuni cugini erano stati arrestati e sarebbero stati rilasciati nel 2011 grazie al chiasso mediatico creato da Hisham ormai scrittore naturalizzato inglese.
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Mi accorgo di quanto sia difficile tradurre in una sintesi vagamente comprensibile e soprattutto accattivante questo libro che è, insieme, storia del dna libico, diario intimo di un figlio condannato a elaborare il lutto di un padre che potrebbe anche non essere morto, saga familiare (meravigliosa la forza dei legami in una famiglia araba numerosissima e spezzata dall’esilio), pamphlet di resistenza prima che politica umana; ma è anche un inno alla letteratura, quella negata dai regimi stolti e che sgorga dalle menti piagate ma non piegate dei prigionieri di Abu Salim: non sai quanta letteratura nasce in carcere, scopre Hisham dai racconti dei suoi parenti reclusi per 21 anni. Nei primi giorni di quella prigionia, di notte quando il silenzio calava, si udiva una voce, ferma e appassionata, che recitava poesie. Era Jaballa Matar, padre di Hisham. Una volta aveva detto a suo figlio “conoscere un libro a memoria è come avere una casa dentro il petto”.
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Hisham Matar raduna e sviscera temi fondanti: famiglia, patria, crescita. Indimenticabile la pagina – presagita nel sottotitolo – in cui scandaglia con precisione psicanalitica “il terroritorio che separa i padri dai figli”, i padri inconoscibili e destinati all’oblio e i figli a portare sulla spalla per sempre il tocco della mano paterna che un giorno li ha spinto nel mondo. E altrettanto indimenticabile quella in cui racconta di pochi anni felici trascorsi con la famiglia al Cairo prima che il padre venisse sequestrato, “all’epoca mia madre si comportava come se quel mondo dovesse durare per sempre. E credo sia questo che vogliamo dalle nostre madri: che conservino il mondo e, anche se è una menzogna, si comportino come se il mondo potesse essere conservato”.
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Ci sono prigionia politica, crudeltà, giovani che combattono e muoiono, ci sono stragi (ad Abu Salim il 29 giugno 1996 furono fucilati 1.270 prigionieri ed è toccante quando Hisham, chiedendosi se fra quelli vi fosse suo padre, corre ai taccuini di quell’epoca e scopre cosa avesse fatto proprio quel giorno…); c’è la real politik, il ministro inglese Miliband che finge di aiutare Hisham a fare luce sulla sparizione del padre, c’è il figlio di Gheddafi che si finge riformatore e promette a Hisham ciò che non manterrà, c’è l’orrore, più che della violenza della connivenza: è chiaro, qui più che mai, che in politica nessuno è innocente, come conferma uno scioccante episodio (vero, come ogni cosa nel libro) che riguarda Nelson Mandela…
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Ma c’è anche la storia di uomini come Jaballa Matar che “alzava la voce se veniva a sapere che un domestico aveva respinto una persona bisognosa. La regola era semplice, mai respingere chi ha bisogno. – Leggere nei loro cuori non è affar tuo, – mi disse una volta in cui avevo affermato con sicumera che mendicare era una professione. – Il tuo dovere non è di dubitare bensì di dare”.
Anche per questo Il ritorno di Hisham Matar è da leggere adesso.
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