Lettera aperta a Daniele Novara
sulla dislessia (e non solo)
scritto da: Francesca Magni
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[N.B. Per la risposta di Daniele Novara, scorrete sotto. Sotto ancora, la mia replica. Perdonate la lunghezza del post, ma ho ritenuto meglio tenere insieme l’intero scambio]
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Buongiorno dottor Novara,
il 29 ottobre, a Uno Mattina, lei ha definito malattie mentali la dislessia, la discalculia, la disgrafia. Provocazione? Lo spero…
Sono la mamma di un “malato di mente” (studente al liceo classico), la “moglie di un malato di mente” (giornalista), la figlia di un “malato di mente” (chirurgo pediatra), la cognata di un “malato di mente” (fisico), la nuora di una “malata di mente” (insegnante di lettere). Sì, nella mia famiglia ci sono alcuni “dis”, ognuno con le proprie personalissime declinazioni di questa neurovarietà, chi dislessico, chi disgrafico, chi con difficoltà nella memorizzazione dei lessici specifici, a fronte di intelligenze piene se non sopra la media e di ottime carriere professionali.
Per ragioni anagrafiche solo uno, mio figlio ora 15enne, è certificato; gli altri si sono riconosciuti attraverso di lui e proprio grazie a questa “agnizione” (la scoperta della dislessia di mio figlio quando aveva 12 anni) hanno riletto le proprie personali peculiarità: si sono capiti meglio.
Io chiamo i dislessici i mancini dell’apprendimento. Le neuroscienze – non un atto di fede – oggi ci dicono che esistono persone con alcune reti neurali disposte in modo atipico
e che da questo deriverebbero alcune caratteristiche come i cosiddetti DSA (disturbi specifici dell’apprendimento), di cui oggi persino l’Associazione Italiana Dislessia arriva a mettere in dubbio l’acronimo: disturbi? Si tratta di disturbi solo in relazione a una scuola che non sa prendersi cura dei diversi stili di apprendimento e dei diversi modi di “funzionare” del cervello. Tant’è che, se sopravvivono alla scuola e ai suoi effetti collaterali sull’autostima, queste persone spesso hanno vite e carriere soddisfacenti se non brillanti.
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Ora, se il suo ragionamento è: “ci sono troppe certificazioni perché non sappiamo occuparci dell’infinita (neuro)varietà dei nostri bambini”, io posso essere d’accordo.
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Mi perdoni, non mi sono ancora presentata. Sono giornalista e mamma di un ragazzo dislessico, ho appena pubblicato “Il bambino che disegnava parole” (Giunti) storia della scoperta tardiva della dislessia di mio figlio.
È storia vera scritta come un romanzo.
In fondo ci sono alcune appendici scientifiche:
una sintesi degli studi sulla dislessia dal 1870 a oggi;
una serie di domande e risposte sulle “best practises” a scuola;
un “Decalogo dei diritti del dislessico e di ogni studente” in cui parlo per esempio del “Diritto di essere considerato normale, ovvero il diritto non essere etichettato” (pag. 358), del “Diritto di dirlo/non dirlo” (pag.363), e anche del “Diritto di non fare media, ovvero il diritto al perdono” (pag. 360) in cui, come lei, sostengo che i voti numerici non siano cosa buona.
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Io sono certa che lei è mosso da intenti positivi e condivisibili. Ma se ora lancia la crociata anti certificazioni, raccoglierà il partito di quelli che quando sentono dislessia dicono «Io non ci credo». Raccoglierà il partito degli ignoranti che non sanno cosa dicono le neuroscienze, raccoglierà i facinorosi e gli arrabbiati che hanno sempre bisogno di gridare a qualche lupo. Farà il gioco di certi insegnanti che mi dicono «Suo figlio non è dislessico, ha problemi psicologici, è ansioso e non sta mai fermo»… Finirà per rafforzare proprio le cose che vuole combattere.
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La battaglia contro le certificazioni ha senso, sono io la prima a pensarlo, ma richiede lente tappe di avvicinamento. Si combatte capillarmente, parlando con gli insegnanti in modo ragionevole. Aiutandoli a vedere, sapere, capire. Non si combatte urlando in tv, come ha fatto lei a Uno Mattina il 29 ottobre (il suo intervento inizia a 1h e 20′) che la dislessia e la disortografia e la discalculia sono malattie mentali.
Perché io credo di avere capito che la sua era una provocazione (me lo confermi, la prego!), ma nelle orecchie della gente resteranno solo poche parole: dislessia = malattia mentale. L’ennesima ferita per chi, come mio figlio, lotta perché la scuola finalmente riconosca e accetti il suo modo di essere e di funzionare. Accetti la sua intelligenza, anche se non corrisponde agli standard richiesti per anacronistica prassi.
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Se ho intuito bene il suo pensiero e l’obiettivo che lei si pone, credo che non sarà contro quello che ho scritto nel mio libro, anzi. Per questo mi fa piacere regalarglielo (gliene ho spedito una copia al Centro PsicoPedagogico di Piacenza). Spero che troverà il tempo e la voglia di leggerlo, per amore di tutti quei bambini e ragazzi che oggi hanno solo la certificazione, una detestabile etichetta, come mezzo per accendere una luce sul proprio specifico modo di essere.
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Mi permetto di suggerirle il video di un intervento (al Festival della Mente di Sarzana) di Maria Luisa Gorno Tempini, neurologa comportamentale che da 15 anni lavora a San Francisco al Dyslexia Center. Quello che racconta sull’origine della dislessia è illuminante. Va nella direzione che le è cara, glielo assicuro.
Dobbiamo trasferire alla scuola, e a tutti gli italiani in genere, le conoscenze sul cervello umano: per capire che esistono infinite neurovarietà e che NON sono malattia mentale.
Oggi queste caratteristiche le certificano i neuropsichiatri: è un passaggio, doloroso, detestabile, ma al momento necessario.
Un giorno lo sapremo e basta: tu sei/non sei mancino, io sono stonato/intonato, tu hai/non hai senso dell’orientamento, io so/non so disegnare, tu sei/non sei coordinato, io ho/non ho memoria per i numeri, tu sai/non sai ballare, io ricordo/non ricordo le parole strane, tu stai attento solo se ti muovi, io solo se sto fermo, tu impari guardando, io ripetendo… Ognuno raggiungerà il proprio voto massimo con il proprio stile e le proprie capacità specifiche. Se sei un pesce, ti farò nuotare, se sei uno scoiattolo ti farò arrampicare.
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L’obiettivo è che non servano più certificazioni. Ma dobbiamo arrivarci senza fare morti e feriti, più di quanti già non ce ne siano. Inseguendo evidenze scientifiche, non atti di fede. Con alleanze, non crociate.
Ci proviamo? Io ci sono.
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La ringrazio per l’attenzione e la saluto con stima.
Francesca Magni
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RISPOSTA DI DANIELE NOVARA
Buongiorno dott.ssa Francesca Magni,
A scanso di equivoci voglio dissolvere subito un dubbio inquietante: non ho assolutamente sostenuto che la dislessia sia una malattia mentale, anzi ho sostenuto esattamente il contrario (come chi ha letto il mio libro sa bene!). Essendo la dislessia ad oggi certificabile con gli standard dell’ICD10 che è il manuale internazionale delle patologie psichiatriche ed essendo la dislessia come gli altri DSA (Disturbi Specifici dell’Apprendimento) diagnosticabile in Italia con questo strumento, ne risulta una situazione davvero grottesca. Per avere un riconoscimento di difficoltà scolastiche attinenti i DSA bisogna sottoporsi a una diagnosi neuropsichiatrica in ordine all’identificazione di una specifica patologia. Per contestare questa realtà ho usato, durante la trasmissione, l’iperbole ironica di “malattia mentale” per far capire l’assurdità della situazione.
Occorre uscire da tutto questo. Dobbiamo iniziare a guardare al bicchiere mezzo pieno, alle risorse dei nostri figli e non alle etichette diagnostiche e patologiche.
Diamo una benefica spallata alla gabbia diagnostica dentro cui si imprigionano bambini e ragazzi semplicemente immaturi e che hanno bisogno dei loro tempi.
E hanno bisogno di una scuola diversa, non più giudicante e mortificante. Una scuola dove si valuti a partire dai reali punti di partenza di ognuno e non dall’allineamento a presunti standard da raggiungere a tutti i costi.
Dott. Daniele Novara
Direttore Centro Psicopedagogico per l’educazione e la gestione dei conflitti
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MIA REPLICA
Buongiorno dottor Novara,
sono felice della sua risposta della quale, a dire il vero, non ho mai dubitato.
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Sono con lei: dobbiamo guardare alle risorse dei nostri figli e la scuola deve valutare ognuno nelle sue peculiarità, a prescindere da presunti standard.
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Il problema, detto da genitore, è che oggi senza una certificazione è impossibile chiedere alla scuola attenzione specifica (e non ho detto ottenere, ho detto solo chiedere). Già con la certificazione la strada è incerta e in salita, si immagini se non esistesse nemmeno quella.
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Inoltre, a me genitore il fatto che le specificità di mio figlio siano riconosciute da esperti (neuropsichiatri e psicologi esperti sul tema e in grado di somministrare e valutare specifici test elaborati e avvalorati a livello internazionale) dà garanzia di evitare proprio i falsi positivi o certe confusioni con altre possibili cause.
Del resto è proprio questo il principio su cui si fonda la legge 170/2010 sui DSA: rilevare dislessia & Co. (diagnosticare è parola inopportuna, a mio parere, e non mi importa se c’è di mezzo un medico) solo avendo escluso altri possibili fattori di “disturbo”, psicologici, sensoriali, emotivi, ambientali.
Insomma, proprio questo iter ci garantisce di portare il più possibile vicino allo zero il rischio di prender fischi per fiaschi.
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E come dicono oggi le neuroscienze (Marilù Giorno Tempini secondo me apporta un contributo molto interessante), sarebbe utile rilevare queste caratteristiche anche prima che il bambino fallisca con la lettura… Rilevarle e tenerle presenti in quella pedagogia (e quella didattica) attente al singolo bambino che lei porta avanti da anni.
Ma la rilevazione precoce (qui un articolo in cui, con l’aiuto di esperti, ho cercato di fare il punto su questo) è un discorso che richiede tempo e maturazione della consapevolezza globale sul tema. Anche se io, se avessi saputo 10 anni fa quello che so adesso, avrei capito come è fatto il cervello di mio figlio e di che tipo di scuola aveva bisogno quando lui aveva 5 anni, anziché 12…
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Ma restiamo nella realtà. Al momento, da genitore di 15enne dislessico che con tutte le forze sta lottando perché vuole fare il liceo classico e vuole che il liceo classico lo accetti per il suo modo di funzionare, al momento resta fastidioso ma necessario che mio figlio abbia una certificazione.
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Ogni bambino ha i suoi tempi, dice lei: verissimo, e fondamentale da tener presente. Mio figlio ha frequentato una classe elementare (una primaria pubblica) che ha fatto proprio questo: lasciarlo ai suoi tempi. Alla fine della seconda ho provato a dire “Non legge ancora” e mi hanno risposto “È intelligente diamogli tempo”. Il risultato è che si è scoperto dislessico a 12 anni, con sofferenze e ferite sull’autostima che una certificazione precoce avrebbe evitato («E io che credevo di essere scemo», mi ha detto mille volte, e poi «È stato come crescere credendo di essere uomo e scoprire di essere donna»).
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Trattandosi di una caratteristica neurobiologica, la dislessia è per tutta la vita (come le ho detto, ne ho diversi in famiglia!). Dunque è ancora più importante che TUTTI la conoscano e presto diventi un dato acquisito e condiviso (che non sarà più necessario certificare), come il fatto che i mancini sono normali e non gente che “usa la mano del diavolo”.
Un’ultima cosa sulla quale spero lei concordi. Penso sia importantissimo arginare e tenersi alla larga da ogni tentazione “negazionista”. I distinguo sono sempre indispensabili e proficui, anche quando sottili e difficili da praticare. Il negazionismo invece fa solo male: alla conoscenza (la dislessia nel mondo si rileva e si studia dal 1870), alle nostre intelligenze e a tante, tante persone.
Grazie ancora per la sua attenzione e, spero, a futuri confronti.
Cordialmente,
Francesca Magni
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Tags: Daniele Novara, dislessia, Il bambino che disegnava parole, Non è colpa dei bambini
Mi unisco a unisuono a Francesca Magni e aggiungerei di approfondire gli studi della PNL programmazione neuro-linguistica anche con una semplice lettura del libro “APPRENDIMENTO DINAMICO ” di Robert Dilts e Todd Epstein
al Dott.Daniele Novara
Bisognerebbe essere tutti più umili e cercare di apprendere anche ciò che non conosciamo! È facile salire in cattedra e giudicare!
I libri del professor Novara sono recensiti e pubblicizzati da ” pensare oltre” noto gruppo che non riconosce questi tipo di disturbi e di posizioni contro la psichiatria ufficiale. Sono anche molto vicini al pensiero di scientology
C’è un disperato bisogno di formare i docenti sin dalla scuola primaria a provare vari metodi di insegnamento a seconda dei piccoli e grandi alunni che si trovano davanti.
Se non vengono messi tutti i “mattoncini” al loro posto nel modo e nei tempi giusti si rischia di far calare ingiustamente l’autostima di persone che,ognuna nel campo a se più congeniale, possono raggiungere importanti obiettivi e soddisfazioni. I DSA si guadagnano ogni giorno con caparbietà e fatica la vita scolastica e sopravvivendo ad essa accettando le numerose apparenti sconfitte che gli ignoranti gli sottolineano diventano più forti e capaci di comprendere gli altri nel bene e nel male.
Io dislessico orgoglioso contro la dislessia…
ciao, sono Alfonso, qualcuno mi conosce qualcuno no, sono dislessico… orgogliosamente dislessico… perche’ penso per immagini, perche’ ho il pensiero laterale… perche’ sogno ad occhi aperti se sento una parola o vedo qualcosa che mi stimola e perso in quei sogni generalmente creo cose che agli altri piacciono o servono.
Rifiuto di pensare a me stesso come meno rispetto agli altri, i “normo” quelli che si stupiscono se uso la calcolatrice o non ricordo una sequenza… tanto li frego sulla distanza… orgoglio… non venirmi a dire “quello non fa per te” perche’ e’ come invitarmi a farlo… magari ci sbatto il naso e mi faccio male… ma io ci ho provato… e non sai quante volte comunque ci sono riuscito…
io orgoglioso della mia dislessia ma anche della mia discalculia, disortografia e disgrafia… anche della disprassia se vuoi… qualcuno dice che sono pure DOP e forse ADHD… ma qui si esagera non sono cosi’ in gamba.
Io dico quasi per prima cosa “SONO DISLESSICO” e dietro me sento il sorriso di Agata Cristi, Moamed Ali mi batte sulla spalla… napoleone sbuffa perche’ non sono interessato a conquistare il mondo e Einstein borbotta perche lui e’ solo discalculico…
eppure sogno un mondo… anche io dico “Io ho un sogno” quello di un mondo senza dislessia… ma con tanti dislessici che grazie all’accettazione e al buon rapporto a scuola e sul lavoro attorniato da persone in gamba… io non debba piu’ dire “ciao sono Alfonso sono Dislessico” perche’ mi sentirei rispondere… “sai che roba ce ne sono tanti”… una didattica moderna, aperta, inclusiva… per crescere senza andia e paura… per giocarmela sullo stesso piano degli altri… senza nemmeno dover ricorrere alla “magia della dislessi” un ambiente di lavoro maturo e inclusivo, non mi servono badanti anzi qualcosina ve la insegno se volete….
Un mondo senza la dislessia… perche’ la dislessia non mi rende diverso da altri perche’ mi da dei talenti ma so che i normo ne hanno altri… possiamo collaborare… inutile tentare di rieducarci o adattarci… perdiamo tempo in due…
ciao, sono Alfonso, qualcuno mi conosce altri no… sono dislessico e fino a che la dislessia sara’ una cosa da dire a bassa voce… io ne saro’ orgoglioso!
Condivido in pieno il contenuto della lettera. Insegno da più di trent’anni nella scuola Primaria e sono fermamente convinta che, se insegnassimo rispettando i personali stili di apprendimento di ogni nostro alunno, non occorrerebbero etichettature. Sulla questione dei voti, che per l’età dei miei alunni, non comunico quasi mai, purtroppo mi scontro continuamente con una generazione di genitori che, probabilmente, hanno bisogno di sapere quanto valgono i loro figli, mentre io cerco di fare capire ai bimbi che il voto non li rappresenta ripetendo spesso: “Voi non siete il voto che prendete!” Quanti danni possiamo fare, soprattutto nei confronti di chi è più debole…
Alfonso sei fantastico, che bello incontrarti! Grazie per questo messaggio bellissimo, piena di intelligenza e di ironia
Grazie anche ad Alessandra e Clarissa.
E a Massimo, che mi apre un po’ gli occhi (sì, sto capendo un po’ di più su Novara, ma non dispero in una sua rispoosta – illusa?!)
@Patrizia: non mi sono mai occupata di PNL per banali ragioni di tempo (lavoro, figli, ora il libro), ma penso sia arrivato il momento di farlo
Mi permetto di commentare perche’ capisco l’equivoco e apprezzo moltissimo il tono e la profondita’ di questo articolo. Ma è del tutto evidente che Novara stia esagerando volutamente. Chiunque l’abbia sentito anche solo una volta parlare sa che il suo intento è solo positivo e deciso a evitare di ‘psicanalizzare’ e ‘medicalizzare’ eccessivamente la scuola, e di non confondere le responsabilità educative e pedagogiche da quelle invece mediche appunto.
Una diagnosi accurata non è una gabbia, è un quadro semiotico che mi permette, come insegnante, di personalizzare la didattica e la valutazione. Definire un ragazzo con Dsa un immaturo, che necessita dei suoi tempi, è pericolosissimo. Perché i tempi non arrivano e allora il passaggio da immaturo a “quello che non ha voglia di fare niente” è un attimo. Altro che gabbia allora.
Perché mentre qualcuno fa il freakettone e si oppone alla “medicalizzazione” (poi vorrei sapere che medicalizzazione è permettere a un ragazzo di fare un compito in classe scrivendo al computer anziché a mano o dargli domande vero-falso anziché chiedergli di esporre contenuti astratti), non ci si fa carico della sofferenza e dell’insuccesso di bambini e ragazzi
mi trovo nel punto dove vi siete incontrati e sono molto felice del vostro dialogo. Ho rilevato la dislessia di mio figlio precocemente e ora sto provando a costruire un percorso di strategie di apprendimento per dargli la possibilità di vivere pienamente la scuola ed evitare i conflitti che inevitabilmente genera il ricorso alla legge 170. Ci aiutano una logopedista e le maestre, che mi rassicurano di promuovere una didattica inclusiva dei dsa e, scherzando, che “ci vorrebbe un pdp per ogni bambino per quanto sono diversi e particolari”. Queste maestre rappresentano una scuola nuova e aperta all’inclusione. Nel dibattito sul boom di diagnosi dsa manca la loro voce.
Noi siamo a Roma, scuola Di Donato-Manin.
Si chiamavano bambini discoli un tempo o svogliati o monelli, esattamente in quel tempo in cui si giocava a palla per ore nei cortili e dove un gessetto bianco apriva mondi e giochi per pomeriggi interi .
Proprio in quei tempi se un bimbo tirava un pugno ad un amichetto , il giorno dopo con una formale richiesta di scuse alla famiglia tutto era risolto e si riprendeva la via per la scuola insieme senza che avvenissero nuove zuffe.
Tutto ciò che faceva parte del mondo dei bambini era solo dei bambini e non si ripercuoteva nella famiglie già provate da quei ragazzi un po’ più “difficili”.
Oggi invece la mamma di G. deve rispondere per lesioni perché il suo bimbo è caduto sulla gamba di una compagna rompendola ,il papà di L. Ha dovuto far ammenda perché il gesto di suo figlio che ha posto il coltello di plastica contro la compagna non è piaciuto molto , la nonna di F. è dovuto andare prenderlo a scuola prima , perché in mensa ha fatto volare via un piatto pieno di pasta .
Racconti di ordinaria amministrazione per chi come me ha a che fare ogni giorno con le famiglie di bambini con disturbi del comportamento e raccoglie con amore le loro vicende e testimonianze .
A loro chi pensa ?
E se davvero “ Non è colpa dei bambini “ ci tengo a sottolineare che spesso , nonostante questo sia il messaggio che passa , “ Non è colpa dei genitori “.
La famiglia e la scuola, concordo siano in grande difficoltà nei processi educativi, punto di partenza per risolvere le disarmonie che possono presentarsi.
Il rapporto intimo di fiducia che era presente tra le famiglie e la scuola è venuto a mancare in un clima sempre piu’ teso e ricco di sfiducia l’uno per l’altro .
La stessa sfiducia viene dimostrata per il sistema sanitario che seppur altrettanto in difficoltà non posso pensare aumenti le diagnosi volutamente a favore delle case farmaceutiche che producono psicofarmaci.
In prima battuta perché voglio immagine che un medico , nello specifico un neuropsichiatra infantile , sia sempre propenso al bene dei suoi pazienti ma anche perché proprio oggi i tagli economici e le restrizioni in merito alla sanità’ mi rendono difficile immaginare un aumento strumentale delle diagnosi che evidentemente sottintenderebbe un aumento dei costi.
Lo stesso passo di fiducia voglio farlo verso chi sta vendendo un libro poiché non potrei sopportare il pensiero di un pedagogista mosso da intenti economici piuttosto che dalla volontà di essere al servizio dei bisogni educativi .
Mi chiedo allora, contro corrente se l’aumento delle diagnosi oggi non nasca da una imprecisa valutazione fatta in passato di questi disturbi , dove non c’era un bimbo ADHD ma piuttosto “ un somaro”.
Quale etichetta sia la migliore è tutto un dire a questo punto , poiché se oggi mio figlio gode del primo banco affinché una buona insegnante possa avere con lui un contatto visivo strategico, ieri avrebbe goduto del retro della lavagna .
Continuando in questa mia riflessione non posso che tornare ancora con il pensiero ai genitori , forse perché io stessa lo sono : famiglie distrutte , frantumante , disperate che ancora oggi , nonostante l’aiuto sia della medicina sia della psicologia e pedagogia , non trovano pace .
Io ho fiducia in loro che con strategie tutte personalizzate spesso hanno anche trovato le soluzioni ai problemi quotidiani piu’ disparati , credo in loro che certamente sanno essere migliori quando sospendiamo il giudizio e non li colpevolizziamo facendoli sentire inadeguati ed intervenendo con delicatezza se vengono ravvisati elementi di problematicità .
Proviamo a rassicurarli sul fatto che se questo e’ il tempo dei giochi sul tablet e non in cortile non è poi tutta colpa loro , proviamo a convincerli con deontologica approvazione che sia i neuropsichiatri quanto i pedagogisti vogliono il bene dei loro bambini .
L’obiettivo di una vera inclusione comincia da una buona e vivace collaborazione dei professionisti che ruotano intorno alle famiglie, sia per quanto riguarda la diagnosi e la cura strettamente sanitaria, sia per quanto riguarda le strategie psico educative che possono essere sviluppate .
Ad ognuno il suo campo d’ azione, ad ognuno le sue competenze ma nell’ottica di un unico percorso positivo che prenda per mano un bambino e lo accompagni dall’ultimo banco al primo.
Dott.ssa Sara Bianchini (mamma di Lorenzo )
Oggi leggo questo articolo con le lacrime agli occhi ,siamo nel 2017,e ancora ci sono insegnanti che non ci sanno indicare una via nel riconoscere o quantomeno valutare inizialmente e aiutare i genitori alla possibilità che un figlio sia dislessico.
Io ho 2 ragazze ,una di 12 ,altra di 16 e ho scoperto solo ora che sono dislessiche,con il problema che la più grande pur riconoscendosi in tantissime situazioni di undlislessico non crede di esserlo perchè c’è ancora un grande preconcetto “…ma no ..è che si impegna poco….”
Son dovuta arrivare fino a queste età per certificare il tutto con una serie di problematiche per entrambe che lascio a voi d’ immaginare .
Un abbraccio a tutti.
Io sono di parte, sia rispetto al tema che rispetto alla “padrona di casa”.
Detto questo, mi è venuta la tentazione di bollare l’intervento del dr. Novara con riferimento al famoso quarto d’oro di Andy Warhol. Ma poi, pensandoci un attimo in più, mi sono accorto che avrei davvero ipersemplificato la questione.
Prima di tutto, i DSA non sono la conseguenza di un tempo evolutivo diverso, ma di una caratteristica neurobiologica. Come ha insegnato in Italia il prof. Stella, sono una “dis-abilità” nel senso che a queste persone mancano i prerequisiti neurobiologici per acquisire la capacità di svolgere in modo efficacie ed efficiente una competenza (che invece chi ha una diversa organizzazione cerebrale acquisisce abbastanza rapidamente e senza eccessivi problemi in tempi relativamente rapidi con un esercizio “normale”). Se non partiamo da qui, ex falso quodlibet…
Poi la certificazione. Se i DSA derivano da un problema neurobiologico, bisogna essere sicuri quanto meno di averne scovato le tracce osservabili nei test neuropsicologici e di avere contemporaneamente escluso altre situazioni che potrebbero determinare difficoltà simili dal punto di vista del funzionamento neurocognitivo. Ho anche pubblicato il caso di una ragazzina ritenuta dislessica ma dimostratasi alla valutazione affetta da un disturbo visivo che le complicava l’apprendimento (risoltosi, per fortuna, con l’opportuno intervento abilitativo e senza nessuna certificazione, ovviamente). Ma al di là della specifica situazione, è richiesto dalla legge 170/2010 che la valutazione diagnostica ci sia, per non dare risposte sbagliate a questioni che sono sì pedagogiche, ma anche di altro tipo.
Perché, come ormai è o dovrebbe essere ben noto, non tutte le persone con DSA sono ciambelle ben riuscite. E infatti esiste una importante proporzione di soggetti con DSA che finisce per abbandonare la scuola e sviluppare magari disturbi emotivi e comportamentali reattivi fin che si vuole, ma che determinano problemi non da poco per la loro vita.
E allora i DSA non sono una malattia mentale, se non per il fatto che nell’ICD 9 e nell’ICD 10 stanno elencati nel capitolo che ha quel nome. Ma possono avere diverse malattie che si associano loro o li mimano: e in questo contesto, una diagnosi ci vuole. E in Italia, almeno per ora, la diagnosi è attività medica (e psicologica, proprio per questo capitolo dell’ICD).
Saggio chi conosce i limiti del suo sapere. Sutor, ne ultra crepidam.
La scuola uccide il talento , ci vuole tutti uguali ,cosi più facile gestire la classe.