Francesco Jovine Le terre del Sacramento

11 febbraio 2013
Scritto da: Michela Tartaglia

Francesco Jovine Le terre del Sacramento (Donzelli, 2012, pp. 257, € 23,00).

Le terre del Sacramento sono un feudo di oltre tremila ettari, con tanto di cappella diroccata, appartenuto alla Chiesa fino al 1867, quando viene espropriato, poi messo all’asta e finisce nelle mani della famiglia Cannavale di Calena, che lascia quelle terre incolte e abbandonate, anche per la nomea di terre del diavolo, terre maledette, su cui si scarica il fuoco dell’inferno ad ogni temporale, ogni volta che qualcuno ipotizza solo di mettervi mano per coltivarle. Il borgo viciniore è Morutri, col celebre cimitero che, quando piove seriamente, va a spasso coi suoi morti: la terra scarnificata di alberi e macchie, saccheggiata della legna dai cafoni, ad ogni scroscio violento di pioggia scivola a valle, con le bare che si sfasciano come cartone e gli scheletri che rotolano in un amalgama di poltiglia fangosa.
Nel romanzo di Francesco Jovine, che è sostanzialmente il suo testamento politico e civile, denso di personaggi grandi, medi, modesti e minimi, signori e cafoni, tutti con nomi e cognomi; avaro di squarci paesaggistici che però, quando compaiono, sono mozzafiato; nel romanzo – dicevo – protagonista assoluto è la terra, latifondi trascurati o svenduti dai decadenti proprietari terrieri, ambita e vitale per sopravvivere e vivere dignitosamente per i cafoni, diritto sacrosanto ma ottusamente, testardamente, spudoratamente negato ancora nell’anno Domini 1922.

Nella vasta sinfonia corale del romanzo tutti hanno spazio, parola, presenza e diritto di esprimere parere e opinioni e filosofia di vita; lo scrittore è manzonianamente onnisciente, non interviene mai in prima persona, la prosa asciutta e scabra filtra lacrime e ingiustizia, violenza e atavica rassegnazione, ma con una certezza adamantina: questa volta non è stata calpestata solo la legge, non ci sarebbe nulla di nuovo, bensì la giustizia ed allora da qui comincerà la svolta.  Dopo il pianto corale delle donne sui tre morti ammazzati, nulla sarà più come prima: ci saranno ancora altri lutti, altre sopraffazioni, altre violenze, la storia è un Moloch che esige le sue vittime, ma la coscienza dei diritti finora sempre calpestati, ma sacrosanti e inalienabili per il quarto stato, ormai è acquisizione definitiva: «Per noi fame e dannazione – ma per i figli paradiso e pane». Anche se la forma è rigorosamente oggettiva, secondo la migliore tradizione letteraria meridionalista, e l’autore si astiene da ogni commento, si respira nel romanzo un’aria di speranza, un moto aurorale di consolazione a caro prezzo, per il processo di maturazione della coscienza di classe e dei diritti elementari, patrimonio di tutta l’umanità.

Poiché questa è un’altra delle tante storie dei senza storia, un cantuccio particolare va riservato alle donne del romanzo, come nella storia e fino ad un certo punto – per esempio, alla fine degli anni Sessanta in America e in Europa – mai davvero protagoniste della loro vita, anche quando sembrerebbe il contrario. Intanto facciamo parlare l’autore: «Clelia, Laura, e le domestiche Elettra, Aurelia, Clotilde. Si mormora: – Va a letto con tutte le parenti, la Capra del Diavolo. Un vero serraglio domestico». È un piccolo povero mondo antico quello di Calena, ma sui bei nomi femminili si sciala senza risparmio; visto dal popolino, il palazzotto Cannavale sembra nascondere tresche chiacchierate e invidiate; Enrico, quasi cinquantenne, vagamente socialista, apparentemente gran lettore, forse passa e ripassa da padrone del tempo con le domestiche, di sicuro frequenta nottetempo la cugina povera accolta in casa come governante, Clelia, lei sinceramente innamorata e devota ad Enrico, fino alla fine leale e tutto sommato vincitrice nel duello tutto al femminile, astuto e ovattato, con Laura. Apparentemente, non ci sarebbe stato gioco, Laura De Martiis, pure lei imparentata con i Cannavale, è giovane, bella, suona da concertista il piano, viaggia, cavalca, fuma, è moderna, spigliata e molto chiacchierata. Da Napoli torna in famiglia a Calena e gioca con Enrico come il gatto col topo, sì che sarà un Enrico invaghito, quasi guidato passo passo, a chiederle di sposarlo, come lei aveva chiaramente programmato. Perché Laura sposa Enrico, al quale al massimo lo lega un affetto blando di parente? Sicuramente i tempi e l’ambiente impongono ad una donna, per quanto moderna sia, un matrimonio conveniente ed Enrico è un ottimo partito, salvo poi costatare che l’immenso patrimonio è quasi tutto ipotecato per debiti e cause a iosa. Mentre Clelia pensa che la salvezza possa venire da un regime parco e misurato, basato su quello che rimanesse del patrimonio, una volta saldati i debiti, Laura invece pensa in grande, oggi diremmo che si scopre imprenditrice, esautora il marito – che è ben felice di mollare barca e timone – e progetta la rinascita delle terre del Sacramento: coinvolge Luca Marano, il giovane studente di Morutri, sapendo della grande stima di cui gode presso tutti i cafoni, in modo che questi preparino le terre per la semina, illudendoli che ad ogni famiglia toccherà in enfiteusi il giusto pezzo di terra. In realtà, con l’aiuto di un banchiere napoletano e del notaio locale, il lavoro massacrante dei cafoni serve a far vendere le terre ad una società che rapidamente invia le cartelle per il pagamento di un affitto stratosferico, anche dove c’è solo legnaia e pietraia. Di qui la rivolta pacifica: i cafoni restano sulle terre, seminando e sarchiando e ai colpi di moschetto di carabinieri e fascisti in gambali e camicie nere risponderanno con le loro armi, le pietre. Sulla coscienza di Laura, che se n’è andata a San Remo e non da sola, gravano i disordini e i tre morti ammazzati: Marco Cece, Gesualdo e Luca. Ma il giudizio lapidario di Gesualdo, quasi gridato all’ingenuo Luca, è peggio di una rasoiata e cancella come una pennellata nera quanto di buono e di bello sembrava avere questa donna:” Ha incassato dei milioni, donna Laura Cannavale: che vuoi che gliene freghi dei contadini di Morutri? Promesse d’una donna. Una puttana che in un anno ha preso marito, lo ha spogliato, gli ha fatto le corna, ha incantato un prete e ha messo nel sacco te e duemila cafoni.”
Ancora una dama d’alto bordo, Anna, compare in un pomeriggio torrido, fresca e provocante, e si diverte a stuzzicare l’impacciato Luca che non osa sbottonarsi la giacca o rimanere in maniche di camicie, sì, al plurale, perché una sua camicia di solito risultava dall’unione di due o tre pezzi di camicie diverse, assemblate amorosamente dallo zio Filoteo. Ma quando tutti gli ospiti dormono nella controra, allora la provocazione si conclude nell’ombra del pagliaio. Un’avventura straordinaria per il toro di Morutri, solo un bel  capriccio per la bella napoletana; ma di norma le voglie fisiologiche del giovane si sfogavano in un tugurio maleodorante, al buio, con una vedova rozza, povera e inguardabile per l’abbrutimento.
Interessante e vivace è Beata, una delle sorelle di Luca; in casa fa tutto, mentre gli altri vanno a giornata o a pascolare gli animali; dotata di un bel caratterino, non ha complessi d’inferiorità verso l’intellettuale di famiglia, Luca, tanto da battibeccare vivacemente con lui a proposito di soldi: il padre Seppe vorrebbe darli a Luca per gli esami all’università a Napoli; Beata li vorrebbe per la sua dote, un minimo di dote, senza la quale la zitellaggine è garantita a vita. Una bella scena nel romanzo: Beata sta sfaccendando, è spettinata, col grembiule e in mano ha una pentola con dell’olio, quando, annunciati da uno sciame di scugnizzi, compaiono donna Laura e altri signori, in tenuta da cavallerizzi, che cercano Luca. Beata si guarda come allo specchio, sa come deve apparire, tipo strega, agli elegantoni; eppure, con un guizzo di carattere, ritrova grinta e sorriso, parla, invita, ironizza.
L’altra bella, indimenticabile figura è Immacolata, la mamma di Luca, fiera oppositrice della decisione di Luca di lasciare il seminario. L’autore ce la presenta in preda alla disperazione, incredula e paurosa della rinuncia del figlio a farsi prete, smarrito e avvinto da un disegno del destino che la donna non riesce a capire. «Maledirò il latte che ti ho dato, gli dice, aprendo davanti a lui le mammelle enormi, gonfie, coi capezzoli duri ed erti come bacche di ginepro». Perché lo crede “preda del demonio.” Quando, verso la fine, come una tigre, sente con sicurezza assoluta che il figlio è in grave pericolo, non si allontana da lui  più di un passo e non gli toglie gli occhi di dosso, quasi lo cova col suo amore e però non s’illude che il suo amore totale possa cambiare di una virgola un destino già scritto. E poi l’immagine della Pietà rusticana: «Davanti alla maceria c’era la pozza del loro sangue (Marco, Gesualdo e Luca), che la terra fradicia non riusciva a bere. Immacolata Marano alzò le mani al cielo con un urlo e s’inginocchiò nel fango; poi tacque, con la testa bassa, e fissava la pozza di sangue… Quando la notte divenne buia, i vecchi accesero i fuochi alle spalle dei morti. A un tratto Immacolata Marano urlò:- Luca, oh, Luca!- e si mise le mani intrecciate sul capo dondolando sul busto. E comincia il compianto corale: “Luca, spada brillante- Stai sulla terra sanguinante -Torneremo al Sacramento, ma avremo di lutto il vestimento”…».
Piansero e cantarono gran parte della notte – dice Jovine – rimandandosi le voci, parlando tra loro con ritmo lungo, promettendo tutto il loro dolore ai morti. La notte era buia e le voci si perdevano sulla terra desolata oltre il circolo di luce che faceva il fuoco, ancora vivo.
Ho lasciato per ultima la figura femminile che mi è parsa più tragica: «Aurora Loprete si era avvelenata; era una ragazza alta, sempre vestita di nero, di viso lungo, pallido e soave. Aveva occhi schivi, grandi, chiari e parlava con voce lenta. Da sette anni suo marito era emigrato in America e da cinque non dava più notizie». Aurora viveva cucendo vestitini e corpetti per le donne di Morutri e usciva solo quando andava a messa o quando doveva far provare i vestiti alle clienti.  Aveva bevuto un’intera caraffa di solfato di rame e l’agonia era stata lunga e straziante; aspettava un bambino, frutto di una relazione con qualcuno di cui testardamente, fino alla fine, non aveva detto il nome. Mentre esplode la primavera, maturano anche gli errori dell’inverno: a Morutri c’era stata come una follia collettiva, festicciole alla buona con incontri tra uomini e donne, musica, balli; Aurora non era mai uscita di casa, ma Michele, il fratello di Luca, spesso si fermava davanti alla sua casa suonando in sordina la sua fisarmonica. Il racconto ci viene fatto proprio da Michele, quando non riesce più a celare i suoi sensi di colpa: era stato per amore, solo per amore; gli incontri notturni e clandestini, la scoperta della gravidanza, la proposta seria di Michele di andare via da Morutri e cercare una qualche forma di sopravvivenza, salvando onore e amore, il tutto rifiutato testardamente da Aurora. Aveva accennato una volta al suicidio, ma chi mai avrebbe immaginato un esito così drammatico? La mite, taciturna Aurora aveva indossato il suo vestito migliore dopo aver ingollato il veleno e si era stesa sul letto, pensando forse che la fine sarebbe stata dolce e rapida. Povera Aurora, subito aveva sentito come una muta di cani azzannarle l’addome e per tutto il meriggio e il crepuscolo si erano sentiti nel vicolo le sue urla strazianti di bestia morente. E le vicine, che erano accorse e le avevano slacciato il busto, «videro sbocciare sott
o la stretta delle bende un grembo liscio e rotondo di donna incinta».
Nella storia dei senza storia, almeno un cantuccio toccava di diritto a chi, storia o non storia, è quasi sempre vittima, la donna, le donne: dell’ambiente, dell’ignoranza, della povertà, della cieca prevaricazione, del maledetto senso di possesso, tutte le pazzie incredibili che ancora oggi portano a commentare, in tante parti del pianeta, la nascita di un bimbo: «Peccato, è una femmina!».

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