la vita che regalano le cose usate
(Michael Zadoorian Second hand)

13 aprile 2011

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Tempo di lettura: 1 minuto – di Francesca Magni

Michael Zadoorian, Second hand (Marcos y Marcos, 2008, e 16,00). Ho già parlato di questo libro otto mesi fa per una definizione geniale che vi avevo trovato (doposbornia emozionale, ricordate?), ma ci sono romanzi che restano in testa, appiccicati per la loro voce speciale o perché trattano temi unici, che in altri scrittori non trovi. È il caso di Zadoorian, amerciano di Detroit con origini armene scritte nella desinenza del cognonome. In Secondi hand mette in scena l’intreccio amoroso di due personaggi singolarissimi, Richard, appassionato cercatore e venditore di roba usata, e Theresa, veterinaria amante degli animali che finisce a lavorare nel più atroce dei servizi pubblici, quello che sopprime i cuccioli randagi. C’è in ognuno di loro un lato “delicato” di noi, Richard e Theresa sono paradigmi di certe  parti sensibili che tutti abbiamo, entrambi vivono con il nervo scoperto del quotidiano rapporto con la morte – morte degli oggetti e delle persone ad essi collegate, morte di animali indesiderati, abbandono, pulizia forzata, oblio. Richard e Theresa distillano per noi la cura a certe fragilità che portiamo dentro. Poi, per mano di Zadoorian, il romanzo è punteggiato di frasi da sottolineare. Tra le tante, questa: «Più si invecchia, più roba si possiede. Perché? Perché le cose ci proteggono. Sono una zavorra, una specie di sistema di resistenza passiva alla mortalità. Pensate alla sensazione che si prova comprando qualcosa: è un piccolo brivido. È un barlume di eternità» (pag. 30). Una pentola, un cuscino, un set di lenzuola, persino comprare oggetti per la casa riesce a darci la sensazione del cambiamento. Ma Richard adora gli oggetti di seconda mano, e io lo capisco. Ha un negozietto di cianfrusagie che rifornisce partecipando a tutti i “garage sale” della zona, le vendite per sgomberi che negli Stati Uniti è possibile improvvisare davanti a casa propria. «Credo che maneggiare qualcosa che è appartenuto ad altri, sia come poter sfiorare il loro passato. È un modo per toccare una persona senza incasinarsi con i sentimenti» (pag. 10).  Maneggiare cose appartenute ad altri è anche creare una tacita staffetta della vita. Amo le case d’epoca e odio quelle nuove, per esempio. Pochi condividono questa posizione, ma per me immaginare storie che sono passate sui miei pavimenti, voci che hanno sbattuto alle mie pareti, oggetti infranti forse anche, amori consumati, vita e fatiche, tutto questo dà senso al mio essere qui, figlia di generazioni precedenti, madre delle future, legata per via casuale a genitori, nonni, bisnonni che non mi appartengono. Così quando compro un oggetto nuovo so che le cose nuove fanno sentire nuovi. Ma le cose usate fanno sentire meno soli.

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