la serratura del signor B.

28 febbraio 2011
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Il portone del mio palazzo è dotato di una serratura elettrica automatica: devi essere rapido a passare dalla porta perché, pochi secondi dopo che hai premuto il bottone o girato la chiave, si richiude da sola. Suggerita dal signor B. e approvata a maggioranza dai condomini, ci tutela nel caso in cui qualche buontempone schiacci il pulsante pur non dovendo uscire. Purtroppo, come spesso capita ai congegni sofisticati, è delicata. Soffre l’umido. Ogni volta che piove, non si apre. Puoi premere il tasto con le più serie intenzioni, lei resta serrata. Se la perturbazione atmosferica si prolunga, a furia di imprecazioni e strattoni, capita che ceda, ma a quel punto non vuole più richiudersi. Così nella brutta stagione il nostro portone o non si apre o non sta chiuso. In materia di sicurezza ognuno ha le sue idee: rischiereste più volentieri l’ingresso di estranei o l’impossibilità di fuga in caso d’incendio? E cos’è una porta: una barriera per tenere fuori chi è indesiderato o un passaggio da cui entrare e far entrare? Entrambe le cose, ovvio; ma quale conta di più per ciascuno di noi, per il signor B., per me?

La risposta non è banale, rivela un modo di essere e di porsi di fronte al mondo, è un po’ come vedere il bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto. Il problema è che questa varietà di inclinazioni, che rende complessi ma anche interessanti i rapporti umani, nello stretto di un pianerottolo diventa esplosiva. Chiusa la porta del nostro appartamento, dimentichiamo di essere persone che vivono nello stesso palazzo, di cui occupano una parte in esclusiva e ne condividono altre. Fatalmente gli spazi detti comuni si trasformano in una “no man’s land”, zona di conquista per alcuni, discarica per altri: lì, senza accorgerci, gettiamo la spazzatura che ci ingolfa l’anima. Frustrazioni, ferite irrisolte, invidia, senso di inferiorià, nevrosi, istinto di prevaricazione, ansia di riscatto e parecchi altri disagi esistenziali trovano sfogo in liti in cui la sproporzione fra la causa e l’effetto è grottesca. In quel luogo psichico che è il condominio, dietro lo spioncino che ci deforma lo sguardo (e sospetto anche l’intelligenza), ci rifiutiamo di conciliare. È esattamente quello che capita, su scala più larga, nel macrocondominio che è il nostro Paese. Anche lì il “fuori” è di tutti e di nessuno: di tutti quelli che sono abbastanza furbi e scaltri da accaparrarsene più o meno lecitamente un pezzo; ma di nessuno quel tanto che basta per sentirci autorizzati a buttarvi i nostri rifiuti materiali e non. Eppure su questo fuori più depredato che amato, proprio come sugli spazi comuni del palazzo, esercitiamo un furibondo diritto di esclusiva e di possesso, quasi fossimo innamorati gelosi, non appena bussa qualcuno che non fa parte del micro o macrocondominio. Le serrature più sofisticate ci sembrano la soluzione, e poco importa se si inceppano, se ci isolano, se ci espongono a rischi peggiori di quelli che dovrebbero scongiurare; poco importa se a premere è lo tsunami del mondo che cambia o è qualcuno che potrebbe avere dei doni.

Non ho mai amato le porte blindate, i catenacci e tutto ciò che, secondo il sentire comune, protegge: ho sempre l’impressione che i veri mostri rimangano dentro, nemmeno la paura tengono fuori. Perciò le porte che preferisco sono quelle girevoli. Da piccola mi divertivano, e spesso da grande avrei voluto incontrarne qualcuna, in amore, nelle amicizie, quando ho preso una decisione importante e quando ho sbagliato. Dubito che convincerò il signor B. e gli altri condomini a installarne una, ma sarebbe bello adottarne almeno lo spirito. È sicura perché nessuno può entrare di nascosto; non costringe a bussare, a disturbare, a rischiare di essere rifiutati; ammette tutti, in ordine e con calma; non induce il desiderio di forzarla né la tentazione di sbatterla. E regala la libertà rara di andarsene e poi, magari, ritornare.

(Questo articolo è stato pubblicato su Donna Moderna n. 24, 2009)

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