l’invisibile dottor B.

27 gennaio 2011
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Una domenica di gennaio dell’anno scorso mia figlia si sveglia con un occhio gonfio e rosso che non si apre. Corriamo al pronto soccorso. Nel giro di sei ore è visitata da tre medici di specialità diverse, fa una tac, riceve una diagnosi, viene ricoverata e inizia la terapia in un reparto pediatrico dove ogni mamma ha una brandina per la notte e dottori e infermieri sono bravissimi a trattare con i bambini. Il secondo giorno di ricovero mi viene offerta una stanza singola. Dei parenti medici l’hanno chiesta a mia insaputa, o forse è stata offerta per il semplice fatto che avessi dei parenti medici. Sento le infermiere mormorare infastidite, iniziano a guardarmi di traverso, nei loro occhi leggo punti di domanda tipo “chi diavolo è questa? Perché deve avere un trattamento speciale?”. Ringrazio e rifiuto, nella doppia stiamo benissimo, con noi c’è una bimba ecuadoriana simpatica, fa compagnia a mia figlia. Le infermiere tornano a essere cordiali, la pediatra caporeparto meno. Ricevo molte telefonate di amici e conoscenti preoccupati. Qualcuno mi dice che conosce il tal specialista e se voglio può chiedergli di interessarsi al caso, qualcuno mi offre la raccomandazione presso la tal struttura privata con cui ha contatti privilegiati. Lo apprezzo, so che adoperarsi per essere di aiuto è segno di vicinanza e di affetto. So anche che non tutta l’Italia è Milano, non dappertutto mia figlia avrebbe avuto automaticamente cure corrette, tempestive e gratuite. Qualcosa però mi disturba. Se la sanità funzionasse sempre come deve, e come noi abbiamo visto che può funzionare, nessuno considererebbe un valore avere corsie preferenziali. Crediamo di essere costretti a chiedere favori perché le cose non funzionano. E se invece non funzionassero proprio perché abbiamo il vizio di chiedere favori? Pensate al circolo virale che si innesca. Il medico che può chiedere la camera singola per il parente ricoverato esibisce un potere; il medico che concede la camera singola esibisce un potere; il paziente che ottiene la camera singola in virtù di una conoscenza importante esibisce un potere. Tutti e tre perderebbero potere, se il servizio fosse ottimo per tutti. È un potere fasullo, ovvio, eppure rispettato, invidiato e ambito. Il virus del “ho un amico che ti aiuterà” genera l’odioso cancro del “lei non sa chi sono io”, e ci rende, sotto molti aspetti, un Paese malato. Il caso della stanza singola si può declinare in mille altri settori, il virus è endemico. E il peggio è che questo sistema ci illude, ma non è efficace: tramite conoscenze e favori non si ottengono cure migliori, al massimo si salta una lista d’attesa, si può avere un esame in più, un parere extra. Nessun medico che si occupa di te per dovere d’amicizia o per debito di scambio ti prende in cura meglio di uno che lo fa perché sei un suo paziente. Lo sospettavo già da piccola, ogni volta che venivo visitata distrattamente dai colleghi di mio padre, o quando vedevo il suo imbarazzo nel doversi occupare di casi raccomandati. Ne ho avuto certezza questa volta. Uno dei miei parenti medici mi aveva annunciato che sarebbe venuto a trovarci il dottor B., pediatra e suo “devoto amico”, che si offriva di assistere mia figlia a casa, per abbreviarle la degenza; la caposala, “devota amica” anche lei, ci avrebbe trovato un’infermiera a domicilio. Risultato: siamo usciti dall’ospedale dopo i giorni previsti, le iniezioni a casa è venuta a farle Barbara, una nostra amica per davvero. E il dottor B.? Mai visto.

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