Islanda day 4: il salto della balena e il pesce con due vite

13 giugno 2018

Scritto da: Francesca Magni

La giornata di ieri si è conclusa con un bagno nella vasca in pietra di Grettislaug, lungo il famoso Skagafjordur e sotto nuvole di tempesta. Dall’acqua solfurea che ribolle caldissima si esce rigenerati, si smette di percepire il freddo come tale perché la pelle prova una sensazione che non ha più strettamente a che fare con la temperatura ma con un indefinibile contagio di energia.
LA CASETTA INCANTATA Dopo una zuppa calda a Saudarkrokur, si parte in cerca dell’Airbnb: la proprietaria ci ha dato vaghe indicazioni e ha raccomandato di portare con noi una foto della casa per riconoscerla. Un metodo efficace se non esistono vie e su sterminate distese verdi le case si contano sulle dita di una mano. Ed è così che urliamo euforici alla vista del prefabbricato giallo chiaro che ci regalerà una nuova divertente esperienza, quella di dormire a casa della Sylvanian Family. Per chi non avesse attorno bambine fra i 5 e i 9 anni, si tratta di una serie di personaggi del bosco che abitano in leziose casette in stile inglese accessoriate nei dettagli, rubinetti a stella, vetri serigrafati, cuori appesi alle finestre, mobili con vetrinette e tende arricciate, per intenderci. La nostra, rigorosamente in plastica che mima legno, modanature e cornici, ha anche un cassetto in cucina da cui esce un’asse da stiro estensibile.

Perdonate se dedico tempo a questi dettagli ma è per esser fedele agli entusiasmi: una volta aperto lo scrigno con la combinazione che custodiva la chiave della casetta di Ragnhildur (la proprietaria ha un nome da saga), è iniziata un’esplorazione appassionata di ogni stanza (soggiorno, cucina, due camere e due bagni, di cui uno “en suite”) che ha impegnato i miei figli fino a notte fondissima. Confesso di aver aperto anch’io qualche stipetto come se stessi giocando o forse aspettandomi tracce del piccolo popolo nascosto… In realtà in Islanda non si ha il permesso di costruire una casa se non si è prima appurato che in zona non abitino degli elfi, quindi posso dire con certezza che ieri nei 40 metri tutto compreso eravamo solo noi, accompagnati da una notte più luminosa e serena del giorno.

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LA CITTÀ CON GLI ALBERI Giorno 4: riprendiamo la strada diretti a ovest, nord-ovest, obiettivo whale watching. Il paesaggio oggi è squillante grazie a un occhio di sole che fa esplodere di colore i lupini viola e bianchi, i prati, le case dai tetti rossi o azzurri e il fiordo che sfodera colori da mar Mediterraneo. Ad Akureyri, seconda città d’Islanda con 18.000 abitanti, nata come colonia dei commercianti danesi, dove la luce rossa dei semafori è a forma di cuore, c’è qualcosa che ci risulta insolito, quasi fuori luogo: gli alberi. In Islanda non esistono. Al massimo sono conifere alte come cespugli, radunate in chiazze sparute. Gli abitanti di Akureyri hanno creato artificialmente un bosco in città famoso in tutta l’Islanda; l’effetto delle lunghe notti invernali dà agli alberi un’aria stentata, ma a questa vegetazione esotica qui tengono moltissimo.

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LA BALENA E IL PESCE SOPRAVVISSUTO Hakureyri è appoggiata alla base dell’Eyjafiordur, che è circondato da montagne vulcaniche scure, dalle forme morbide e coperte da colate di neve. Seguiamo il fiordo verso nord fino a Huaganes dove un ex peschereccio ci imbarca imbottiti in tute che tengono meravigliosamente il vento e gli spruzzi, e in un attimo siamo al centro del fiordo, a 25 chilometri dal Circolo Polare Artico, in un punto in cui l’acqua è profonda 100 metri e una megattera che può raggiungere i 20 affiora a respirare ogni 5, 7 minuti. Ha la pelle che emana riflessi cobalto, la coda bianchissima nella parte inferiore, la seguiamo estasiati in un whale watching – tourist watching reciproco; la filmo in diretta instagram per far felice mia suocera e stacco un secondo prima che la balena ci regali un salto in aria. La porto stampata sulla retina. L’animale grandissimo, la pancia bianca, l’energia che deve essere servita a un pachiderma simile per spiccare il volo dall’acqua. Vorrei che non smettessimo mai di inseguire questa creatura misteriosa e antica che vive tra 40 e 100 anni, come noi.

Siamo tutti rapiti dal vento, gli spruzzi, la sensazione di essere così vicini al centro delle cose vere, la natura di cui siamo parte e da cui ci teniamo così lontani.

La gita continua offrendo ai passeggeri la possibilità di pescare, sono merluzzi e altri pesci grandissimi che abboccano all’amo, il capitano li sfiletta vivi, uno spettacolo che ci fa inorridire piazzandoci al centro delle nostre contraddizioni, “Non ti piace il pesce nel piatto?” dice Costanza a suo padre con tono provocatorio; lui distoglie lo sguardo, lei segue l’operazione con franco realismo ed è lei a raccontarci che dallo stomaco di un merluzzo è uscito un piccolo pesce vivo che il capitano ha ributtato il mare, lei a osservare curiosa le interiora e a chiamarci quando vengono usate per far correre i gabbiani famelici alla velocità della nave.

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LA CASCATA CHE NON C’È La guida dice che è qui, ma siamo nel mezzo di una tipica landa di muschio islandese, zolle tonde in una distesa piatta per 360 gradi. Come può esserci una cascata se non c’è una montagna? Poi ecco qualche macchina parcheggiata, la cascata è sotto di noi, si tuffa in un canyon, alta e larga. Si chiama Godafoss, cascata degli dei, perché qui furono buttate le statue pagane quando si decise che l’Islanda sarebbe diventata cristiana.

Lasciamo la cascata sotto una pioggia conclamata, non prima di un acrobatico autoscatto, e tra le molte sensazioni che mi porto in spalla (e manca ancora la notte nel b&b remoto sul fiordo) quella che le sovrasta tutte è il piccolo pesce che ha avuto la sua seconda vita.

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