Islanda day 0: un viaggio (non) desiderato

9 giugno 2018

Da anni lui ne parlava con i nostri figli. È da quando lo conosco che cerca di portarmi a Nord e io lo trascino a Sud. Ma ai due adolescenti la meta è sembrata cool e io sono finita uno contro tre. Quest’anno si va in Islanda.Strappo una manciata di giorni di ferie sperando segretamente che lui demorda, finché una sera annuncia che ha comprato i voli. Ok, dico, però stavolta organizzi tu. Lui tace, ha un’abilità per cui io sono negata, far finta di nulla. Passa un mese poi due, gli giro blog di viaggi in Islanda, lui li ignora. Se insisto perché prenoti qualcosa, ribatte che non è mica convinto sia così necessario.Un paese grande un terzo dell’Italia con una popolazione inferiore agli abitanti di Firenze, un’isola che lambisce il circolo polare artico e ha una sola strada asfaltata circolare, una terra dove una camera senza bagno per 4 può costare 400 euro, dove ti raccomandano di tenere in macchina dei sacchi a pelo e di fare benzina ogni volta che vedi un benzinaio, dove nello stesso giorno attraversi un ghiacciaio, lambisci una laguna di iceberg e passeggi su una spiaggia nera, dove la città più grande è un villaggio, ecco, in un paese così lui non è mica convinto…

Mancano ormai 40 giorni al decollo, una quaresima che mi vede impegnata in altri cammini; E se in Islanda ci muovessimo in bici così non prenotiamo?, tenta lui e allora capisco che non ho scelta. Accendo il computer, apro la mappa, Ok, non preoccuparti, faccio io. Non dice di no. Cava di tasca dei fogli spiegazzati fitti della sua disgrafia, Ho scritto l’itinerario, dice fiero, Cosa ti è venuto in mente di NON usare il computer!, esclama sua figlia, Dai leggimi i posti che hai segnato che li trascrivo, faccio io con senso pratico e un file di word già aperto davanti.

È una giaculatoria di consonanti su cui sdrucciola come se camminasse sul ghiaccio, un paio sono ignote al nostro alfabeto, quella che assomiglia a un carattere cirillico si pronuncia come il th di thing, quella che sembra una d con lo zaino come il th di this; lui arriva in fondo e poi, evidentemente liberato, mi molla fra quei nomi impossibili. Chissà se sospetta che passerò mezza giornata a rimescolare le lettere che lui ha scritto invertite, costretta a un gigantesco Scarabeo solitario per ricomporre i veri nomi delle località islandesi; chissà se immagina di non averne trascritto uno giusto o se come suo figlio in prima elementare si è sentito anche lui come un cane davanti al mare.

Sbroglio l’itinerario, prenoto notte dopo notte, annoto le coordinate su google maps, già so che se la difficoltà non sarà trovare un posto dove dormire, sarà senz’altro trovare, fra la lava, i cespugli bassi e il nulla, proprio il posto in cui abbiamo scelto di dormire. Ma a differenza del solito, la prospettiva non mi eccita né mi attrae.

In vacanza come nella vita, ogni viaggio comincia con un desiderio. Non conosco altro modo per partire, camminare, sperare di arrivare. Ma ora sul volo che lui ha prenotato a tradimento, e nonostante l’itinerario dettagliatamente programmato da me (con sua gratitudine postuma), mi sento come chi letteralmente non sappia dove stia andando. Dove voglia andare. Mi accompagna un senso di ignoto più acuto che in qualsiasi altro viaggio prima d’ora. Il senso di ignoto di chi, non desiderando, non ha immaginato.

Immersa in questa emozione fredda e a un passo dallo scalo che tra poco faremo a Londra, decido che racconterò la mia Islanda; ma vi avverto: assomiglia troppo alla mia vita in questo momento perché possa essere solo un racconto di viaggio.

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