fra le righe
(Ermanno Bencivenga Parole in gioco)

3 dicembre 2010
Tempo di lettura: 3 minuti

Ermanno Bencivenga è un filosofo, insegna in California, ha scritto saggi di logica, di filosofia del linguaggio, e qui raccoglie capitoletti che sono come i guizzi di un pesce che si diverte a saltare dentro e fuori dall’acqua. Da Parole in gioco – il linguaggio stralunato della filosofia (Mondadori, 2010, € 9,00) vi riporto questo brano, a mio avviso bellissimo. Dopo vi racconterò perché. «Il significato si legge fra le righe. Non il significato ovvio, banale, quello che c’è sul dizionario. “Cane” vuol dire cane, “porta” vuol dire porta e, se uno scrive “il cane sta dietro la porta”, il fatto che il cane sta dietro la porta è scritto sulla riga, con lodevole chiarezza. L’unico problema è: di solito nessuno vuole dire cose come “il cane sta dietro la porta”; di solito queste cose non interessano a nessuno. Di solito quel che si vuol dire, per esempio, è “Non sognarti nemmeno di venire a casa mia”, e per dirlo si scrive, su una riga, “il cane sta dietro la porta” e sula riga dopo “So che hai molta paura dei cani”. Fra le due righe non c’è scritto niente, ma è lì che si trova il vero significato, cioè che tu non ti devi nemmeno sognare di venire a casa mia. Uno potrebbe pensare che, se i significato più importante si trova là dove non c’è scritto niente, tanto varrebbe non scrivere niente del tutto, lasciare la pagina bianca. E invece qualcosa  bisogna scriverlo, qualcosa che non è quel che vogliamo dire, qualcosa che copra le righe, cosicché fra le righe, dove non c’è scritto niente, ci possa stare il significato che conta davvero». (pagg. 21-22).
Non so più in quale romanzo Gabriel Garcia Márquez butta fra le righe con distrazione una piccola verità: le donne pensano più al senso delle domande che alle domande stesse. Ho provato a spiegarlo a qualche uomo, ogni tanto, quando non capiva che una domanda su banalità quotidiane potesse sottintendere oscuri nidi di non detti irranciditi, ben più urgenti della piccola incombenza richiesta. Sono cresciuta in una famiglia in cui il detto era coperto del non detto, e il non detto stava in agguato fra le pieghe, quasi sempre come un chi va là; l’allerta emotiva correva sul filo delle parole e sulle parole mi sono allenata a camminare in punta di piedi – come mi allenavo a spostare i piedi fra i sassi del pavimento di cucina, antica posa in opera degli anni Cinquanta, dove il gioco era non calpestare i più grossi, come fossero bombe. Da sempre mi muovo per abitudine sopra e sotto le parole cercandone tutti i sensi, prima quelli nascosti. Ho la benedizione e la maledizione che hanno i cani, di sentire gli ultrasuoni; io sento le onde dei messaggi che viaggiano fra le righe del parlar d’altro.

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(Ermanno Bencivenga Parole in gioco)”


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