essere e status: olio e acqua
(Marc Augé Diario di un senza fissa dimora)
Marc Augé, Diario di un senza fissa dimora (Raffaello Cortina, 2011, traduzione di Maria Gregorio, € 9,50). Marc Augé è un celebre etnologo e antropologo francese con il dono per la scrittura e, aggiungerei, per l’immedesimazione: riesce a calarsi in un personaggio paradigmatico, un senza fissa dimora, per farci prendere coscienza di un fenomeno sociale con la stessa forza che avrebbe un buon film. Il tema è di grande attualità. Augé parte da un dato legato alla crisi economica: esiste, nei paesi ricchi, una nuova fascia di persone che pur avendo un lavoro o una pensione sono a tutti gli effetti povere. Non hanno un reddito sufficiente a mantenere una casa. Quando vediamo qualcuno che dorme per strada lo classifichiamo in categorie sempre molto lontane da quelle in cui includiamo noi stessi, ma Augé ci dimostra che spesso non è così. In questo libretto formato tasca, il protagonista è un pensionato ex ispettore del Fisco, senza figli e con due ex mogli che si sono prese il poco che aveva. Quando anche la seconda lo lascia, l’uomo si accorge che la sua pensione non basta a pagare l’affitto. Vende i mobili e prende una decisione radicale: andare a vivere nella sua Mercedes. Di giorno gira per il quartiere, frequenta i negozi dove fa regolamente la spesa, chiacchiera con la gente che non conosce la sua situazione, saluta la portinaia fingendo di aver cambiato indirizzo. Mantiene dei ritmi, igiene personale, pulizia degli abiti, regolarità nelle abitudini, un diario delle sue nuove giornate, i pasti che in una vita con pochi punti fermi diventano pilastro e cadenza della giornata.
A poco a poco, per il solo fatto di non avere più una casa, un indirizzo, una cassetta della posta, scivola in una terra di nessuno. Come se perdere un domicilio significasse perdere la propria collocazione sulla mappa sociale. Nell’istante in cui gli altri non sanno chi lui sia perché non sanno dove lui sia, lui stesso sente affiorare una nuova dimensione della propria identità: una dimensione più fluida, «una lieve sensazione di ebbrezza o di vertigine, la certezza di poter fare quello che voglio senza che qualcuno lo sappia» (pag. 28).
Essere e status si separano come olio e acqua dopo l’emulsione, ogni parte estrinseca la propria natura. Anche i vecchi amici diventano impossibili da fequentare, «difficile interpretare una parte quando non ha più ragione d’essere, e difficile restare al proprio posto quando lo si è perduto» (pag. 125). Con questo racconto scritto in prima persona Augé ci spinge ai confini del nostro essere e del nostro punto-mappa nel mondo. Ci fa sentire che l’uomo del romanzo potremmo essere noi. Ci aiuta a guardare in modo diverso chi vive come lui. Ma questo pur eccezionale risultato sarebbe ancora poco se Augé non ci inducesse anche a sporgerci su un baratro che dà le vertigini: la tentazione che tutti coviamo, chi più in superficie, chi più repressa, di provarla, quella libertà magmatica, senza fissa dimora.
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Scritto da: Francesca Magni
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Tags: Diario di un senza fissa dimora, etnofiction, Marc Augé, Raffaello cortina
Quanto è vero Francesca quello che rilevi tu e quello che ci fa provare l’autore. La meravigliosa persona che cura i miei figli, onesta, lavoratrice, sensibilissima ha passato alcuni mesi della sua vita, appena arrivata in Italia, su una panchina. Dalle sua parole, ti assicuro, non appare nessun fascino per la “libertà magmatica” quanto un forte senso di impotenza e di disillusione nei confronti della vita.
Forse ho mescolato due piani che andavano tenuti distinti. Distinti per rispetto.
Da un lato c’è il senso di impotenza che si ricava dal sentirsi messi ai margini e senza un’alternativa, un senso di perdita di identità, di disillusione e delusione, anche disperazione, immagino. Forse pure di tradimento: la società che non ci accoglie e non ci offre possibilità è traditrice. In questo periodo di incertezze economiche in cui sembra che niente sia più garantito, mi esercito spesso a immaginare cosa si provi a perdere ciò che si ha – che poi finisce in buona parte per coincidere con ciò che si è…
Ma il romanzo di Augé descrive il progressivo abbandonarsi del protagonista all’ineluttabile come galleggiando su un’onda che non ha modo di affrontare e non può che “cavalcare”, facendo il morto. E’ in quell’abbandono alla necessità, in quel forzato esercizio di svuotamento (della casa e della propria vita) che sente affiorare, paradossale ma comprensibile, anche una forma di fascinazione per una libertà estrema: una vertigine del ritrovarsi nudi e crudi. Una sensazione fuggevole che si colloca sul confine tra la vita socialmente inquadrata e la vita “al di fuori di tutto”.
Ecco, io penso che in ognuno di noi si nasconda, a diversi livelli di profondità e di rintracciabilità, il desiderio di provare quella libertà assoluta in senso letterale – sciolta da tutto. E credo che Augé volesse suggerirci di esplorare anche questo anfratto di noi stessi, perché è solo spingendosi fin lì che si può tentare capire cosa prova chi, per le vie più diverse, è arrivato a essere “senza fissa dimora”.
Mi attira moltissimo questa storia. Hai ragione Francesca, l’essere senza fissa dimora può essere spiazzante e portare a considerazioni di fallimento. Ma puo’ anche condurre alla fine di tutti quegli obblighi, sociali e non che tanto infestano la nostra vita. Quanti orpelli ci portiamo dietro. Molti sono totalmente inutili e appesantiscono il nostro vero Io.
Bella l’idea dell’autore. Ci fa intravvedere, in un evento potenzialmente tragico come la perdita di una casa e di una sicurezza economica, una possibile occasione di riflessione e di libertà.
Sì, occasione di riflessione e di libertà: è esattamente la sintesi di questo libro e della sua preziosità.