incontro con Khaled Hosseini

13 ottobre 2013

Barba di 3 giorni, camicia scura, scarpe appuntite. Un po’ Antonio Banderas un po’ Colin Farrel. Khaled Hosseini, lo scrittore da 38 milioni di libri (4 dei quali venduti in Italia), è a Milano per la tappa clou del tour europeo: «Siete il Paese che mi ama di più» scherza dandomi una vigorosa stretta di mano nella hall del lussuoso albergo che lo ospita. Con E l’eco rispose ha venduto più di 800.000 copie in tre mesi. Da cosa nasce il “feeling” coi lettori italiani? «Speravo me lo potessi spiegare tu» ribatte ridendo. Penso a Il cacciatore di aquiloni, a Mille splendidi soli, ai pianti che mi sono fatta. Anche in questo terzo romanzo Hosseini ripropone la formula: vicende familiari estreme che mettono l’uomo di fronte a una paura epica, e non prevedono il lieto fine. Come nella storia di Abdullah, a cui strappano l’adorata sorellina Pari, venduta a una famiglia di Kabul.
I legami che descrivi sono di un’intensità assoluta. Amori d’acciaio. È così in Afghanistan? «La famiglia definisce il tuo posto nel mondo. Con la povertà estrema e la guerra i rapporti affettivi sono in pericolo, perciò diventano così acuti e il bisogno di preservarli diventa vitale, l’essenza stessa del vivere».
L’esistenza dei tuoi personaggi sembra determinata dal fato. Tu credi nel destino? «No. Ma tutti noi abbiamo l’istinto a fare della nostra vita una storia, a tesserla in una trama narrativa, per darle uno scopo. Credo che il destino sia questo, e siamo noi a crearlo».
Nel libro c’è un personaggio che ti somiglia, Idris: afghano esule in America e medico, come te. Torna da Kabul carico di emozioni che però svaniscono in fretta. È autobiografico? «È l’episodio che sento più vicino. Quando torno dall’Afghanistan nella mia casa a San José, in California, è uno shock: rientrare nella comoda banalità del quotidiano è inesorabile. Ma lascia sensi di colpa».
Tu come ci convivi? «Scrivo. E nel 2007, sul volo da Kabul, ho deciso di creare la mia fondazione umanitaria. Costruiamo case-rifugio, finanziamo scuole, cure mediche per le donne. Abbiamo appena comperato un ecografo per le gravidanze. Voglio aiutare le persone di cui parlo nei miei romanzi».
Potresti scrivere di storie che non siano afghane? «No, è inconcepibile per me. Se scrivo è soprattutto per l’urgenza di raccontare la storia e le storie che mi porto dentro».
Qual è il tuo più bel ricordo degli anni a Kabul? E il più brutto?
«Lo ammetto, non ho alcun brutto ricordo. Ho vissuto in Afghanistan in quella che per il Paese potremmo definire un’età d’oro. C’era povertà, non era una nazione sviluppata, ma si viveva in pace. E io, figlio di un diplomatico e di un’insegnante, avevo tutto: la scuola, gli amici, i cugini, i giochi, la casa, l’automobile. Nessuno nel mondo parlava dell’Afghanistan: quando sono arrivato negli Stati Uniti, a 11 anni, mi stupivo che i miei coetanei americani non sapessero nemmeno dell’esistenza del mio Paese».
I tuoi libri si vendono in Afghanistan? «Nell’ultimo viaggio ho trovato i miei romanzi in una libreria di Kabul: li traducono in farsi in Iran e da lì arrivano agli afghani. I lettori di una certa età sono sospettosi: ho vissuto solo l’era migliore di quel Paese, non ho visto esplodere una bomba, abito nella mia casa in California e parlo di loro. Il cacciatore di aquiloni è stato il libro più controverso perché parlava delle rivalità etniche fra pashtun e hazara, un tema tabù. Non perché dicessi cose che non erano vere, ma perché le rivelavo al resto del mondo. Però molti lettori giovani scrivono per ringraziarmi».
Hai già una storia per il prossimo romanzo? «Non esattamente. Ho  un’idea. Vaga. Saprò se funziona quando mi metterò a scriverla. In genere non stendo progetti capitolo per capitolo. Parto subito a scrivere. Lo svantaggio è che magari lavoro per 6 settimane e poi devo buttare via tutto. Ma il vantaggio è che la scrittura mi porta dove vuole. Così è più sorprendente e divertente».
Com’è la giornata tipo di Khaled Hosseini? «Niente di eccitante. Porto i iei figli a scuola (hanno 10 e 12 anni) e scrivo. Dalle otto e mezza alle due e mezza, più o meno. Ho una sola regola: non scrivere mai quando i bambini sono in casa. Se ci sono, voglio stare con loro».
Quando scrivi ti senti libero o ti poni il problema di compiacere i tuoi milioni di lettori? «Pensare ai lettori è pericolosissimo. Inquina la creatività. Per staccarmi da questo pensiero mi rinchiudo in una specie di cantina mentale, un luogo in cui sono solo e gli sguardi esterni non possono raggiungermi. Il giorno in cui cedessi al pensiero di scrivere per compiacere chi mi legge sarà il momento di smettere.
Sei ambasciatore per l’Uhncr, l’agenzia dell’Onu per i rifugiati. Come te molti attori famosi: sono presenze utili? «Sì. Ho conosciuto Angelina Jolie e mi ha impressionato la sincerità del suo coinvolgimento. È informatissima. Grazie a lei si parla di luoghi e sofferenze che sarebbero ignorati».
Nel 2014 gli Usa ritireranno le truppe, salvo un piccolo contingente. Che ne pensi? «Gli afghani hanno tollerato gli americani perché sono stati un filtro rispetto agli orrori della guerra civile del ’92-’96. Credo sia giusto che restino, anche in forma minima. Ho paura di cosa accadrebbe senza di loro».
Non c’è modo di sconfiggere i talebani? «Solo una trasformazione culturale all’interno dell’Afghanistan può riuscirci. Quanto a noi occidentali, sono una realtà che dobbiamo arrenderci a conoscere. Nelle campagne la gente li sostiene largamente. Dobbiamo trattare con loro. E combatterli sostenendo il diffondersi della cultura e lavorando per le donne, l’unico motore in grado di innescare trasformazioni radicali di mentalità. Io, intanto, avrei dato il Nobel per la pace a Malala».

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