Venuto al mondo di Margaret Mazzantini: esce il film (di Castellitto)
Al giornale mi chiedono di intervistare Margaret Mazzantini per l’uscita del film tratto da Venuto al mondo (Mondadori 2009). Non ho letto quel libro, e i tre suoi che ho letto non mi hanno convinta. Mi ci butto per necessità. E finisco nella rete, impigliata nelle immagini continue, nella frase che interpreta vissuti di tutti, nella storia piena di dolore, nella descrizione della guerra. Convincente. Mi piace. Un libro di quelli che ti si appicciano addosso. Poi la chiamo. Margaret è cortese, parla un po’ come scrive. Ma gioca tutto in difesa.Vuole che si parli solo del film… è di quelle persone che i giornalisti detestano intervistare. Non ti sorprende, attacca un disco e dice a tutti le stesse cose. Una parte di me la capisce. Forse al suo posto mi difenderei nello stesso modo. Però i grandi, quelli veramente grandi, non hanno bisogno di schermarsi così. Possono essere come sono, uscire dalla traccia, guizzare senza paura. O no? Ecco l’intervista.
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Occhi chiari, viso affilato, 51 anni, quattro figli, sette romanzi, 650 mila copie vendute solo con Venuto al mondo, il suo libro più intenso («Con questo romanzo ho incominciato a invecchiare»): Margaret Mazzantini è una delle nostre scrittrici più lette e amate. Ora il suo bestseller ambientato a Sarajevo è anche un film. Sceneggiato da lei e girato dal marito, Sergio Castellitto, con Pénélope Cruz nella parte di Gemma e Emile Hirsch (il ragazzo di Into the wild) in quella di Diego. Non è facile fare domande a Margaret, quando parla è una pioggia torrenziale, «sono carne in tempesta» dice di sé.
È stato difficile contenere in un film un romanzo così denso di storie?
«Per uno scrittore ridurre un libro in un film è uccidere i suoi amori. Le cose che ama di più, spesso non sono le più importanti: costruisci una cattedrale per raccontare una smagliatura. Ma il film non è il libro, ne è “figlio”. Abbiamo tenuto la storia, che si riassume in poche righe: una coppia non riesce ad avere figli e finisce per trovarne uno in Bosnia. Quando il ragazzo è cresciuto, la madre, Gemma, lo porta a Sarajevo, e lì scopre la vera storia della nascita di suo figlio. Sullo sfondo c’è la guerra, la prima che abbiamo visto in tv all’ora di cena. Quando è cominciata allattavo il mio primogenito, Pietro, avevo un’ossessione, ho raccolto quintali di ritagli di giornale, nel libro non c’è niente che non sia vero».
Il romanzo è toccante, si piange. E il film?
«Io, sul set, ho pianto infinite volte. Anche la troupe era commossa, giravamo in un silenzio sacrale. Mi sembra un buon film, di quelli che ti lasciano affamato d’amore. Torni a casa e hai voglia di abbracciare i tuoi cari».
Lavora molto con suo marito, siete considerati una coppia perfetta. Non si stanca mai di averlo attorno?
«Ma guardi che non stiamo così tanto insieme. Io sono un gatto solitario, appena posso mi ritiro nel mio angolo segreto, che è la scrittura. Sergio dice che gli sembra di non conoscermi mai del tutto. La gente pensa chissà che, ma noi siamo solo dei gran lavoratori. Ci sentiamo due barboni che ce l’hanno fatta. Nella divisione dei compiti siamo tradizionali, io mi ammazzo come tutte le donne, giro il sugo e intanto ascolto i ragazzi che ripetono la lezione. Ieri abbiamo avuto amici a pranzo, ho cucinato tutto io, Sergio mi ha dato una mano a rimettere a posto».
Nel film c’è anche vostro figlio Pietro…
«Pietro ha ispirato il personaggio omonimo nel romanzo. Era giusto che lo interpretasse lui. È stato molto felice. Poi ovviamente si è lamentato. Sergio mostrava le scene a Pénélope, a Emile, tutte le urla e i pianti li recitava prima lui, per aiutare gli attori. Pietro sosteneva che con lui fosse meno attento: “Con me papà c’ha meno pazienza”».
Non ha pensato di interpretare lei Gemma?
«No, non recito da anni. Ho fatto una scena di una fioraia al markale, il mercato coperto di Sarajevo, ma l’abbiamo tagliata, erano quattro ore di film. Per Gemma serviva una più giovane di me».
Come avete scelto Pénélope Cruz?
«È stata lei a proporsi, anche se a me non sembrava giusta. Certo non pensi a una donna sterile, guardando Pénélope! E poi stava allattando, aveva un seno pieno, e io di Gemma avevo un’immagine più anoressica. Invece come sempre è stata bravissima».
La Cruz ha recitato anche in Non ti muovere. Che rapporto avete, di cosa parlate?
«Pénélope è una star, vive tra l’America e la Spagna, non ci vediamo molto. Ma quando viene a Roma le preparo la pasta alla puttanesca, la sua preferita. Parliamo di tutto. Lei vedeva Gemma in me, studiava di continuo i miei atteggiamenti, ogni tanto le dicevo “Oh, guarda un po’ da un’altra parte!”».
La Bosnia in Venuto al mondo e poi la Libia in Mare al mattino. Sono guerre vicine ma non nostre. Ci sono guerre italiane che le piacerebbe raccontare?
«La mia scrittura è sempre di guerra. Per il prossimo libro sto pensando a una storia d’amore: anche l’amore è una guerra, anche la vita quotidiana lo è, una guerra per la quale nessuno di noi è veramente adatto. L’essere umano è un campo di battaglia, vive di pulsioni sommerse in lotta fra loro. Pensi a Gemma. Pur di avere un figlio, arriva a spingere l’uomo che ama ad andare con un’altra donna: è una crudeltà contro se stessa».
Gemma vuole un figlio a ogni costo…
«Io non mi permetto di esprimere giudizi. La maternità è un discorso talmente privato. Chi non ci passa non può immaginare il calvario della sterilità, il dramma».
Come ha fatto a immedesimarsi in una donna sterile, lei che ha quattro figli?
«È proprio avendo dei figli che posso capire cosa significhi non riuscire ad averne».
Pensa che i gay abbiano il diritto di diventare genitori?
«A questa domanda preferirei non rispondere. Io vorrei solo che ci fossero leggi più giuste. Invece anche un dramma come la sterilità diventa una questione di soldi».
Lei è madre di due femmine ed è tra le prime firmatarie del manifesto “Se non ora quando?”: pensa che le italiane debbano riconquistare una dignità calpestata?
«Penso che ci sia una misoginia latente. Però non mi piace fare discorsi sociologici. Perché c’è la donna che resta incinta nella piccola azienda e viene licenziata. Ma poi c’è anche la donna di potere che è stronzissima. Quello che è intollerabile è la violenza sulle donne. Cosa puoi dire a una figlia oggi? Devi studiare e saperti difendere. Quando esce un figlio maschio la sera è un conto, quando esce una femmina è diverso. Però ci sono anche uomini vessati da donne forti che hanno più capacità dialettiche. Vede quanto è complicato il discorso? Io ho tante visioni poco ortodosse e lei non mi può fare l’intervista su tutto… Dica che questo film racconta una bella storia d’amore».
Su questo non si può che essere d’accordo.
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Scritto da: Francesca Magni
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Tags: Bosnia, Emile Hirsch, film, intervista, Margaret Mazzantini, Mondadori, Pénélope Cruz, Sarajevo, Sergio Castellitto, Venuto al mondo
grazie per la bella intervista. avevo già letto il libro: mi ha lasciata senza fiato per giorni. una storia incredibile di dolore, guerra, maternità… che doveva essere raccontata e divulgata il più possibile. aspetto con trepidazione il film, certa che non mi deluderà: non mi deludono mai i film tratti dai libri, se c’è una buona sceneggiatura, un buon regista e bravi attori: qui siamo al sicuro.
grazie infinite a margaret, una donna normale, nonostante la sua straordinarietà.
“Venuto al mondo” mi è piaciuto tantissimo. Così come ho amato molto anche “Non ti muovere”. Il libro prima, il film dopo. Sarà che ho un debole per Castellito come regista, attore, uomo! E la scrittura della Mazzantini mi paice. Non sempre. Ad esempio non mi ha per niente conquistato “Nessuno si salva da solo” di cui abbiamo già ampiamente parlato qui nè “Il catino di zinco” sempre della Mazzantini che ho letto molto tempo fa e che mi ha lasciata… tiepidina!
Bella intervista, Francesca.
Sono impaziente di vedere il film! Spero non mi deluda!
Concordo con i tuoi giudizi sui libri della Mazzantini, Susy! Anch’io non ho visto il film, salvo qualche scena in anteprima. Esce domani, lo vedrò e ne parleremo: aspetto un tuo commento!
Francesca, leggilo il libro. E’ davvero bello, direi in grado di riconciliarti con la Mazzantini. E se non ci riesce neppure Venuto al mondo, allora, ritienila un capitolo chiuso!
Sì, certo, come dico all’inizio, l’ho letto prima dell’intervista! E sono rimasta irretita, conquistata. Il mio giudizio sulla Mazzantini con cambia, ma Venuto al mondo per me è un eccellente romanzo
Cara Valentina, non ho più l’età per correre dietro a scrittori mediocri sperando che il nuovo libro sia un po’ meno mediocre dei precedenti, e così di capitoli ne ho già chiusi molti: Mazzantini, Baricco, Tamaro, Giordano, Piperno, e anche l’insopportabile De Luca. Questo mi lascia tempo per leggere il paio di autori italiani viventi che apprezzo (e il cui nome non vi dirò, perché non sembri che voglia fare pubblicità) e soprattutto per rileggere amici come Cervantes, Swift, Flaubert, Dickens, Tolstoi, Verga e alcuni altri. Tempus fugit, ma che sia almeno in buona compagnia.
Il problema della Mazzantini è l’uso smodato delle metafore che vogliono colpire il lettore come forzando i limiti delle cose, ma sempre in forme rozze, eccessive, banalmente caricate. Basta guardare nelle prime pagine: dell’adolescente Pietro in crescita si dice che “ha fatto la muta, ha lasciato le sue ossa di bambino per diventare un grosso airone zoppicante…” (pag. 13); così a proposito delle ruote dell’aereo tirate fuori per l’atterraggio: “quelle ruote che si assettano per atterrare sembrano uscire dalla mia pancia” (pag. 18: e lasciamo da parte la curiosa cacofonica omofonia: si assettano per atterrare); Gojko che la riceve all’aeroporto le va incontro “come mare che ha viaggiato e violentemente si ricongiunge a se stesso” (pag. 20); tornato a Sarajevo non vuole lasciarsi “scoperchiare” dalla città e ne scorre le prime immagini “senza registrarle veramente, brevi occhiate furtive, spezzoni, come francobolli bruciati” (pag. 21); ma ecco Piero che riposa: “Le ciglia chiuse nel bianco delle palpebre sono un filare di alberi spogli nella neve… terra tagliata in due da una trincea” (pag. 37: naturalmente la seconda metafora vuol suscitare un lampo dell’orizzonte bellico che poi trova ampio spazio più avanti nel romanzo)”.
Potrei continuare…
Tengo a dire che sto citando una critica di Giulio Ferroni.
Per ciò che riguarda l’intervista, certe risposte della Mazzantini risultano imbarazzanti, altre banali.
Cerca di descrivere sempre dei personaggi di donna che si spingono al sacrificio estremo, sino a ridicolizzare ciò che ha scritto. Penso alla protagonista di “Non ti muovere” e alla realtà di tutti i giorni. Praticamente una donna extracomunitaria, povera e lontana dal suo paese, innamorata del proprio uomo che è ricco, dal quale aspetta un figlio, decide di rinunciare a tutto questo, abortisce e si fa da parte. Direi che non è solo poco credibile ma patetico. Non stiamo parlando di horror o thriller, stiamo parlando di un film che dipinge il quotidiano. Mi chiedo quante donne avrebbero fatto così.
Concordo con Angelo. Le storie raccontante dalla Mazzantini sono spesso storie estreme, penso a “Nessuno si salva da solo” ad esempio. Probabilmente la “libertà” nello scrivere un libro consiste anche in questo: nell’estremizzare situazioni che nella realtà non sarebbero credibili, oppure ingigantire o minimizzare… Inventare qualcosa che nella realtà non esiste o magari… semplicemente raccontare la verità che, talvolta, risulta più grottesca, incredibile, della fantasia…
Però… a me l’uso delle metafore della Mazzantini (in “Venuto al mondo”) è piaciuto. L’ho trovato sorgivo, qualcosa che fluisce senza essere costruito. Sono spesso così ficcanti da dare una scossa al lettore, fungono da sottolineatura quasi “sonora”, un campanello che suona. E suona intonato.
D’accordo signora Francesca, ma quelle proposte da Ferroni di sorgivo hanno solo la pena per nasce dentro leggendo simili imperizie.
L’adolescente Pietro che fa la muta perché perde le ossa non si può sentire.
Errata Corrige: “che” nasce dentro e non “per”.
“venuto al modo” è l’unico libro letto della Mazzantini e mi è piaciuto ed emozionato.
Letto d’un fiato è riuscito ad arrivare dove non molti libri arrivano fin sotto la pelle. Però sono d’accordo sulle metafore, esagerate ed esasperanti, l’unica nota stonata di questo libro.
Nel frattempo ho visto anche il film… Mi è piaciuto abbastanza, meno del libro però. Penelope Cruz è bravissima, il figlio di Mazzantini-Castellitto invece non regge. Peccato, avrebbero potuto scegliere di meglio, senza voler a tutti i costi fare del film “un affare di famiglia”!
Cara Francesca,
mi ha fatto riflettere quel che mi dici, forse perché più o meno abbiamo la stessa età: “non ho più l’età per correre dietro a scrittori mediocri sperando che il nuovo libro sia un po’ meno mediocre dei precedenti, e così di capitoli ne ho già chiusi molti”. Qualche capitolo, come te, l’ho chiuso anche io, però un po’ mi spiace. Mi sento come se mi fossi privata io stessa di un mare di possibilità.
Se la lettura è anche viaggio e scoperta bisogna accollarsi il rischio di finire in un posto che non ci piace. Leggere e rileggere i mostri sacri arricchisce ogni volta, ma non è come viaggiare, è come tornare in vacanza ogni anno nello stesso posto. Mi piacerebbe sapere se hai trovato una ricetta che permetta anche a me di uscire da questa impasse…
Guarda Valentina, quella del viaggio sembra una delle metafore forzate della Mazzantini.
Bisogna accollarsi il rischio di finire in un posto che non ci piace?????? Ma chi l’ha detto? E perché?
Rileggere i mostri sacri è come tornare in vacanza nello stesso posto???? No, deve essere la Mazzantini camuffata.
Cara Valentina,
anche io, come te, fatico a “tirare una riga sopra”, tendo a concedere sempre il beneficio del dubbio, una seconda possibilità, anche una terza!
Però… se un autore non ti convince una volta, non ti convince la seconda e nemmeno la terza… Se un libro non ti coinvolge, affascina, conquista, rapisce subito… non c’è storia! La mia lista di libri iniziati ed abbandonati è piuttosto lunga… e poi c’è così tanto da leggere, tanti autori, tante storie, tanti “viaggi”… perchè perdere tempo con qualcuno o qualcosa che puntualmente ti delude! Ti porteresti in vacanza un compagno di viaggio noioso, petulante, pesante, per nulla interessante ecc ecc????
…In ogni caso… una cosa permettetemi di dirla: se non altro la Mazzantini ha il pregio di… far discutere… visti i numerosi commenti a questo post!!!!
Buona giornata a tutti
In effetti la Mazzantini non vale tanta discussione (anzi, non vale discussione alcuna, e tanto meno di essere letta, e manco di essere intervistata, ma qui si va sul marketing giornalistico e un/a giornalista, se il direttore glielo chiede, non puó rifiutarsi di intervistare la Mazzantini o un altro della congerie). Per fortuna, però, il tema della discussione si è allargato, e dirò a Valentina: leggere certi nuovi autori non è una avventurosa partenza verso nuovi lidi, ma un pacchetto turistico all inclusive con compagni di viaggio che vogliono fermarsi a ogni angolo a comprare souvenirs. Qualcuno ricorda l’articolo in cui Manganelli, citando Scheiwiller, affermava: “Non l’ho letto e non mi piace”? È un’affermazione tutt’altro che assurda. E ne approfitto per aggiungere, a quelli che purtroppo ho letto (un po’) e non mi piacciono la Pariani e la Mastrocola, con l’aggiunta di Riccarelli. Cattiva, eh? Una vecchia bisbetica non domata…
Sono molto d’accordo con Susy, sia quando dice che almeno la mazzantini crea dibattito
sia quando dice che come me “fatica a tirare le righe sopra”… Era proprio questo lo spirito del mio commento e, in realtà è una riflessione generale, non c’entra la mazzantini in particolare, ma qualsiasi autore che come lei ha scritto libri belli e libri pessimi. A me è capitato di imbattermi in autori contemporanei (a onor del vero più stranieri che italiani) di cui mi è piaciuto tanto qualche libro sì e qualche libro no e per quel che mi riguarda non riesco a non dare loro un’ulteriore possibilità, sperando ogni volta di incocciare in un libro sì. Certo se poi capita che qualcuno non mi convinca per tre volte di fila lo abbandono… Non sono masochista. Per quanto riguarda, invece, i viaggi all inclusive di Francesca è una metafora azzeccatissima (con buona pace del simpatico Angelo): mi è capitato solo una volta nella vita di farne uno di quelli che descrivi tu e lo ricordo ancora con orrore.
P.S. Anche per me la Mastrocola è insopportabile.
Non ho mai letto un romanzo della Mastrocola. Ma ho amato moltissimo le sue poesie raccolte ne LA FELICITÀ DEL GALLEGGIANTE, che trovate qui
http://www.lettofranoi.it/2011/04/paola-mastrocola
Sogno o son desta?
Mesta e rimesta
Or rapida or lenta
Fo la polenta.
Son desta o sogno?
Non ho bisogno
Di stare attenta
Alla polenta.
Nel dormiveglia
Del mio cervello
Suona la sveglia
E il campanello
Mi dice: è pronta,
versala già
questa polenta
sull’umanità.
Ecco dopo avere visto ieri sera il film, peggio mi sento. Pieno di buchi nella sceneggiatura, a tratti patetico; ogni tanto i personaggi se ne uscivano con delle frasi da libro stampato. Terribile, pessimo strumentalizzare la sofferenza, la tragedia del popolo bosniaco sull’altare di una pazza che vuole un figlio.