le vite che abbiamo
(André Dubus Voci dalla luna)

5 maggio 2011

xxx

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André Dubus, Voci dalla luna (Mattioli 1885, 2011, traduzione di Nicola Manuppelli, €17,90). «Questo è un libro gioioso. Di una gioia conquistata con dolore e a fatica. Ma nondimeno una reale, e persino ardente, gioia»: scrive così, nella postfazione Peter Orner, allievo di André Dubus, scrittore americano nato nel 1936 e scomparso nel 1999. C’è del vero. Questo romanzo breve, o racconto lungo, mette in scena i profondi affetti di una famiglia scombinata a suo modo, come ogni famiglia, ma capace alla fine di raggiungere la gioia. Quella che scaturisce solo dall’essere in asse con se stessi, con le proprie emozioni, per intricate che siano. Dal saper compiere per intero il percorso di dolore e redenzione che ogni vita offre. Dubus coglie tutto questo nel breve istante di una giornata, che arriva dopo molti avvenimenti sofferti e all’inizio di una nuova svolta. La scena di apre su  Richie, il figlio dodicenne, terzogenito nato tardi in un tentativo vano di riparare un matrimonio finito; per tenersi a galla nella complessa geografia familiare, il ragazzino si aggrappa alla fede e al sogno di diventare prete. Alla confusione emotiva dei suoi parenti la sua gioventù monolitica cerca di opporre il baluardo della moralità, e l’intelligenza dell’autore sta nel mostrarlo come l’ingenuo tentativo di un bambino di arginare il corso complesso, multiforme, contraddittorio delle vite adulte.

La mattina in cui inizia la storia, il padre di Richie, Greg, e suo fratello maggiore Larry hanno una discussione dolorosa: Greg vuole sposare Brenda, la ex moglie di suo figlio. Ci si aspetterebbero scenate, odio, furia, e ci sono in parte, ma temperati da un sincero legame padre-figlio; sullo sfondo, la vicenda di Larry e della moglie Brenda, un legame così intenso che i due avevano creduto possibile far emergere e appagare nella vita di coppia le perversioni di lei (fare l’amore con degli sconosciuti mentre il marito è in casa). Larry e Brenda si sono spinti troppo in là, e non importa perché e in che modo lo abbiano fatto: a tante coppie succede di spingersi troppo oltre la soglia del dolore che è possibile infliggersi e assorbire. Così la loro vicenda singolare diventa in un certo senso esemplare; e  allo stesso modo il desiderio di Greg per la ex nuora assume la forma di una amore comprensibile benché fuori dalle regole, persino dalle leggi del Massachussetts, dove svolge la storia. La cosa più bella di questo romanzo è che Dubus raccoglie un vicenda privata senza giudicarla, e al bambino Richie (che con sagace ironia commenta «Sarà difficile essere un cattolico in questa casa») affida il compito di mostrare che non sono le regole, l’intransigenza, i moralismi, la ragione a poter governare l’uomo (alla fine anche Richie, aspirante prete, cede ai primi palpiti amorosi per una coetanea). Se qualcosa può governarci e portare una ratio nel disordine è solo l’autenticità dei sentimenti. Greg ama veramente i suoi due figli maschi, il grane Larry e il piccolo Richie, e ama teneramente la figlia femmina, e  solo questo, nel vorticare spesso conflittule dei rapporti, fa la differenza.

Ma c’è nel racconto un’altra figura interessante, pur se appena tratteggiata sullo sfondo: la madre dei ragazzi, ex moglie di Gregg, che ha abbandonato la famiglia, e il terzogenito di dieci anni, per ragioni che Dubus non spiega ma a cui vagamente allude. Penso a Nora di Casa di bambola: non ho mai capito come Ibsen potesse  credere una madre capace di abbandonare un figlio pur di fuggire a una condizione matrimoniale a-vitale… Eppure la moglie di Gregg ha finito per rivelarmi se non le sue ragioni profonde il senso della possibilità, forse persino della sensatezza, di una scelta tanto estrema. A lei Dubus affida l’ultima parte e la frase chiave di questo racconto così simile a un dramma teatrale: «Il nostro compito non è vivere grandi vite, il nostro compito è capire e portare avanti le vite che abbiamo».

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Solo una nota negativa, devo aggiungere riguardo a questo libro, per molte ragioni delizioso (non ultima la veste raffinata dell’edizione, il cartoncino bellissimo, gli angoli arrotondati della pagine): ho trovato la scrittura non sempre scorrevole. Ci sono momenti in cui ci si ritrova a pensare “sto leggendo un libro”, e questo è segno che qualche nota stonata nella scrittura ci ha sbalzati fuori dalla storia, come una cunetta sulla strada può sbalzarci dalla bici. Ho letto il libro in traduzione, però, e posso supporre si tratti di un difetto di editing.

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