il “teorema del lutto”
(Julian Barnes Livelli di vita)

11 novembre 2013

Julian Barnes Livelli di vita (Einaudi, 201, traduzione di Susanna Basso, € 16,50, pp. 118). Può un libro che racconta il lutto dello scrittore per la morte della moglie essere meraviglioso? Ci sono scrittorini che ci ragguagliano sulle loro personali sofferenze, forse convinti di offrire esempio che possa un giorno tornare utile anche a noi; o più semplicemente inconsapevoli che le loro quotidiane fatiche non sono più eccezionali delle nostre. Le loro parole non valgono il sacrificio degli alberi che le trasportano. Invece Julian Barnes ha scritto un trattato non convenzionale sul dolore per la morte della persona più cara. Un testo che si sottrae alla presunzione di definire il lutto, e finisce per darne una dimostrazione geometrica.

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Julian Barnes (di cui ho già apprezzato Il senso di una fine) comincia raccontando insolite storie d’amore: quella del fotografo e aeronauta Nadar per la moglie malata; quella immaginaria di Fred Burnaby, colonnello della cavalleria inglese e pioniere dei voli in mongolfiera, con Sarah Bernhardt; e la propria con la moglie Pat Kavanagh, morta dopo 30 anni di vita insieme. L’amore, come il volo, ci innalza dalla nostra natura terragna. Tutti aspiriamo a trovarlo perché «è il punto d’incontro fra verità e prodigio». Ma «ogni storia d’amore è potenzialmente anche storia di sofferenza», e come si è saliti nelle altezze, si precipita.

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Il libro è diviso a metà. Il volo, la caduta. «Ti senti come se fossi precipitato da un’altezza di qualche centinaio di piedi, senza mai perdere i sensi, e fossi atterrato in un’aiuola di rose con tale violenza da ficcarti a terra fino alle ginocchia, mentre lo shock dell’impatto ti ha spappolato gli organi interni scaraventandoli fuori dal corpo». Così Julian Barnes si descrive da vedovo. Di pagina in pagina esplora il processo del lutto e la vertigine del dolore che si alternano, piano orizzontale e piano verticale, e che lui percorre fra le reazioni imprevedibili degli amici e con rammarico per la perdita di profondità, nel senso geometrico del termine: «Una volta, tanto tempo addietro, potevamo scendere agli Inferi dove i morti continuavano a vivere» scrive Barnes. Orfeo poté persino riportare in vita la sua Euridice. «Adesso quella metafora ci ha abbandonati e non può più essere che letterale: speleologia, estrazione mineraria, eccetera. Niente più mondi inferi, ma solo sotterranei».

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Penso al disagio di un’amica di fronte alla figlia undicenne che parlava disinvoltamente della propria morte, quando verrà, e alla bellezza di quell’infantile avventurarsi negli Inferi, subito stigmatizzato dal tabù di noi adulti.
Penso alla passione dei miei bambini per i miti greci, fra tutti la storia di Proserpina che, innamorata di Ade, andò a vivere nel mondo Infero per sei mesi all’anno: così nacquero, dice il mito, le stagioni, il battere e levare della natura.
Penso di aver letto Livelli di vita provando piacere, nonostante il dolore, proprio perché capace di regalarmi il viaggio di Orfeo, che le metafore moderne ci hanno negato.

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Quando incontro una frase che mi colpisce, piego l’angolo della pagina per tornare a rileggerla una volta finito il libro. Livelli di vita ha il 90 per cento di angoli piegati. L’ho chiuso e riletto da capo, pensando al lutto che ancora non mi ha veramente toccata, pensando all’amore e alla sua altezza vertiginosa, troppo spesso liquidata con la leggerezza dell’euforia. Chiunque ami o abbia amato, chiunque abbia sofferto il dolore di una perdita ringrazierà Barnes per aver dato voce all’essenziale. Personalmente condivido anche la sua interpretazione della morte. «È solo l’universo che fa il suo mestiere».

Scritto da: Francesca Magni


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