esercizi di introspezione collettiva
(Peter Cameron Il weekend)

6 aprile 2013

Peter Cameron Il weekend (Adelphi, 2013, traduzione di Giuseppina Oneto, € 16,00, pp.177).

Parto dalla trama, per dare ordine alle sensazioni che mi si affollano dopo avere chiuso questo romanzo bellissimo.

C’è una coppia (Marian e John) con un bimbo piccolo (Roland) che vive in campagna a nord di New York e aspetta per il fine settimana un caro amico di vecchia data (Lyle) nonché ex compagno del fratello di John (Tony), morto di Aids l’anno prima. C’è una vicina di casa italiana (Laura) invitata alla cena del sabato in giardino. C’è l’attesa per un incontro che, per Marian, ha tutta la sacralità di una commemorazione ma anche di una consacrazione: quel weekend, anniversario della morte di Tony, dovrà segnare il passo del lutto e della rinascita.

Ma Lyle arriva da New York con una sorpresa, un giovane pittore (Robert) che frequenta da pochissimo. La presenza di Robert infrange le aspettative di Marian, impedisce che nasca un nuovo ordine, vanifica il lavacro condiviso del dolore. Tutto salta. Il weekend va a rotoli in un climax di eventi minuti, di dialoghi puntuali che scaldano il libro a poco a poco, dalle prime pagine ancora circospette sino al finale, splendido e così vero che sul treno del ritorno verso New York, ci si sente addosso l’umore di Lyle, che è senza Robert e con un occhio pesto per un piccolo incidente.

La narrazione ha un andamento da pièce teatrale, piena di dialoghi di realistica bellezza. E ha l’acutezza di un film girato con passione per il particolare. Dopo le prime pagine in cui ancora ci si deve ambientare, ogni parola guida l’occhio dell’immaginazione su un dettaglio che diventa sostanza della situazione, del carattere di chi parla, dell’ambientazione (una bella casa nel bosco vicino a un fiume).

C’è un momento in cui John esce in giardino di notte e trova Lyle e i due si parlano; John racconta di voler costruire qualcosa nel bosco e solleva la torcia verso l’alto e l’occhio di chi legge si sposta verso l’alto e vede un bosco estivo squarciato per un attimo dalla luce che illumina le foglie sotto il cielo nero… La descrizione ha un nitore mai di maniera, sempre necessario: quella torcia interrompe un momento di tensione emotiva fra John e Lyle, scioglie un picco di sentimenti – stanno entrambi sentendo il peso della perdita di Tony – ed è esattamente quello che a ognuno di noi è accaduto almeno una volta o forse di più, e non importa che la loro storia non sia la nostra perché la dinamica è la nostra: è la storia di un tipo di relazione, di un modo di rapportarsi agli altri, di quel nido (a volte nodo) di sentimenti che si intrecciano fra chi vive legami di amicizia come fossero famiglia. È la storia della fatica di farli filare lisci, nonostante i sentimenti lo vorrebbero.

Credo si debba aver vissuto un po’ per cogliere l’indulgenza con cui Peter Cameron osserva le debolezze dei personaggi, gli errori, il loro procedere nella vita tentati talvolta, ciascuno a proprio modo, di cedere, di mollare il colpo e smettere di lottare, disillusi.

Mi viene da dire che sia un libro per chi ha passato i quarant’anni. O per chiunque abbia vissuto abbastanza da capire (leggi sentire) passaggi come questo: «Ci sono cose che si perdono e non tornano indietro; non si possono riavere mai più, se non nella copia carbone della memoria. Ci sono cose a cui sembra impossibile rassegnarsi ma a cui rassegnarsi è inevitabile. Lo scorrere dei giorni leviga il dolore ma non lo consuma: quello che il tempo si porta via è andato, e poi si resta con un qualcosa di freddo e duro, un souvenir che non si perde mai. Un piccolo bassotto di porcellana delle White Mountains. Una marionetta del teatro delle ombre di Bali. E guarda: un calzascarpe d’avorio di un hotel a quattro stelle di Zurigo. E qua, come un sasso che porto ovunque, c’è un pezzetto di cuore altrui che ho conservato da un vecchio viaggio».

Scritto da: Francesca Magni

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