un originale viaggio nell’ossessione d’amore
(Gaia Coltorti Le affinità alchemiche)
Gaia Coltorti Le affinità alchemiche (Mondadori, € 15,00, pp. 357). Non capita spesso di aprire un libro e restare folgorati dalla voce che sprigiona. Quella di Gaia Coltorti è forte, originale, senza essere artificiosa: il romanzo, per esempio, è scritto al “tu”, come se l’autrice raccontasse (o ricordasse) la storia a Giovanni, uno dei due protagonisti. Una costruzione pericolosa che lei regge senza sbavature fino all’ultimo. Il tema è ardito: due fratelli gemelli separati da piccoli si ritrovano diciottenni e si innamorano come capita solo una volta nella vita.
C’è qualche debolezza nei contorni psicologici della vicenda – la nonchalance con cui Giovanni vede tornare in casa la madre, che se ne andò quando lui era piccolo lasciandolo col padre e portandosi via la sorella; il rapporto tra i gemelli e i genitori. Tuttavia resta un bel libro, nuovo, che lascia un segno.
Trascina, pagina dopo pagina, sulle montagne russe del desiderio spasmodico, dell’ansia di essere amati quanto si ama. È un viaggio nell’innamoramento, più che una storia di incesto. Il fatto che i protagonisti siano due gemelli non è ragione di indagine in sé: è piuttosto un pretesto, perfetto e paradigmatico, per raccontare la fame e la pena degli amori irrealizzabili.
Io credo che il libro di Gaia Coltorti offra questo, da conservare. L’indagine – quasi una cronaca – intorno a quello stato indecifrabile, misterioso e autonomo dalla nostra volontà che tutti viviamo con lo stesso furore cieco, a diciotto anni come a quaranta o a settanta. Ecco perché l’ho trovato un bel libro.
Devo aggiungere che l’autrice è al suo esordio, ha 20 anni e lo ha scritto a 17. Sono le credenziali perfette con cui molte case editrici oggi scelgono i loro esordienti: il personaggio da trasformare in fenomeno. Ma aprendo il risvolto di copertina e vedendo la foto di Gaia Coltorti, mi sono detta: stavolta no, non c’è trucco, non c’è inganno, penso. Il suo viso semplice, non la bellezza che va di moda oggi ma quella di chi ha negli occhi una luce intelligente. Pettinatura senza moda, un golfino rosso senza moda. Gaia mi ha conquistata anche per questo. E se scriveva così a 17 anni, aspetto di leggerla di nuovo.
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Scritto da: Francesca Magni
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Tags: amore, esordiente, Gaia Coltorti, innamoramento, Le affinità alchemiche, Mondadori
L’ho appena comperato seguendo il tuo consiglio su Donna Moderna. Finisco la Tamaro e lo comincio subito. Ti faro’ sapere… 3
L’ennesimo romanzetto adolescenziale semplicemente patetico, pubblicizzato con tanto di tromboni e nacchere. La Mondadori ha abilmente sfruttato la storia mediocre ma commerciale (perché scandalosa e maliziosa) di una adolescente, per vendere ancora una volta una manciata di libri allo scopo di assecondare la malizia e il guardonismo tipici del pubblico giovane di oggi. Se 50 anni fa storie di tal calibro sarebbero state relegate ai fotoromanzi, oggi ahimè certi temi sono arrivati in libreria. Se desiderate leggere qualcosa di patetico, a momenti parodistico, questo è uno di quei romanzi irritanti fortunatamente rari. Libro logorroico ed altisonante, con uno stile lezioso ed ostentato, appesantito ed infiocchettato. Una storiella tediosa e pedestre, agghindata con tono, anzi contaminazioni letterarie e rimaneggiata dagli abili dottori del marketing di Mondadaori per soddisfare un fragile pubblico adolescente autoreferenziale e scopofilo.
Ciao Gianni. Ho già scritto cosa penso. Accolgo qualsiasi parere anche e volentieri se critico. Dubito sempre un po’ degli eccessi di livore: si può smontare un libro senza odiarlo. Conto su nuove voci, per ampliare il confronto, al momento polarizzato sugli opposti.
C’è un rapporto sempre vertiginoso, ne “Le affinità alchemiche”, una specie di “specchiatura” continua, fra Johnny e Selvaggia e i loro genitori ex-separati.
In fondo, Johnny e Selvaggia guardano a se stessi come a dei nuovi maghi giovanili devoti dell’amor-proibito, “intossicati” – direbbe De Rougemont – d’amor-passione.
Johnny e Selvaggia raddoppiano, portandoli all’estremo, i corteggiamenti attraverso cui i genitori trasmettono (inscenano) la propria riconciliazione tardiva, improbabile seconda luna di miele, re-inizio d’una storia d’amore coniugale troppo a lungo mancata.
Di sicuro, mi stupisce l’idea che in “Gioventù bruciata”, praticamente sessant’anni fa, la famiglia alternativa da costruirsi coi compagni di scuola e i coetanei fosse una tentazione già al centro del racconto.
E Johnny e Selvaggia, lo sappiamo specialmente tramite Johnny, si vedono come una famiglia separata e alternativa a quella dei genitori.
È nutriente in un’enorme quantità di direzioni, che Gaia abbia scelto le dinamiche di Romeo e Giulietta.
È nutriente, che Gaia ricorra alla grammatica della passione di Romeo e Giulietta, alla loro relazione innanzitutto “vietata”, per raccontarci (mettere daccapo in scena) i vecchi trucchi del desiderio mimetico sotto spoglie contemporanee.
Rivolgendosi a un pubblico d’oggi, prevalentemente giovanile, di nati alla fine degli Ottanta o giù di lì.
Durante l’epoca elisabettiana vennero allestite 2.000, opere teatrali. 15.000 persone la settimana, frequentavano i teatri londinesi – un numero enorme, se si pensa che la popolazione della città non superava i 160.000 abitanti.
Due persone su quindici andavano a teatro almeno una volta la settimana, e i teatri arrivavano a contenere 3.000 persone.
La vasta affluenza, era in buona parte dovuta al linguaggio molto diretto e vivo delle pièce, ben comprensibile anche da parte di quanti non sapevano leggere né scrivere.
Non essendovi distinzione fra i gusti dei cortigiani e quelli del popolo, i frequentatori dei teatri pubblici costituivano un campionario rappresentativo di tutte le classi sociali.
In una città di 160.000 abitanti come Londra, Shakespeare doveva attirare a teatro un pubblico pagante di migliaia persone urlanti e per lo più ubriache tutti i giorni.
Quindi, Shakespeare doveva narrare la sua storia in modo abbastanza aggressivo, chiassoso ed esuberante da farli tacere, e allo stesso tempo comunicare qualcosa a persone di ogni tipo, di qualsiasi estrazione sociale.
Il bello di quegli spettacoli – come direbbe Luhrmann, regista di“ Romeo+Juliet” – è che mischiavano tutti i generi, dalla commedia più scurrile, sul genere “Tutti pazzi per Mary”, alla tragedia più classica tipo “Titanic”. Il tutto, in un unico spettacolo.
Probabilmente, Shakespeare avrebbe ambientato “Tutti pazzi per Mary” sul “Titanic”. Non faceva distinzioni. Mischiava commedia volgare, tragedia classica, violenza, azione e musica popolare – sì, le canzoni pop.
Usava tutti i generi, il tutto in un unico spettacolo. Non esisteva uno stile tematico. Shakespeare usava qualunque cosa catturasse e coinvolgesse il pubblico più disparato.
Ora, un grande merito di Gaia è custodito esattamente nel suo sforzo di proporci un linguaggio in grado di funzionare non solo quest’anno o l’anno prossimo.
Ovvero un linguaggio capace, tutte le volte che serve, di rammentarci in che senso lei si sta confrontando con una specie di difficilissima “cover” monumentale, e in grado, nel contempo – il linguaggio, intendo – di durare: Gaia ha realmente imparato, da questo scrittore impareggiabile vissuto quattrocento anni fa.
L’editore olandese delle “Affinità alchemiche”, nel cui catalogo compaiono narratori delle ultime generazioni come Ammanniti, del libro di Gaia scrive: “Fenomenale romanzo d’esordio di una giovane scrittrice italiana, ‘Chemische affiniteiten’ narra la nascita dell’amore fra un fratello e una sorella. Con questo romanzo, Gaia Coltorti tocca non solo un tema classicamente letterario come avviene in ‘Lolita’ – l’amore proibito – ma scrive una tragedia moderna che somiglia molto a ‘Romeo e Julia’ di Shakespeare, consegnandoci un libro per gli amanti della letteratura classica, ma anche per gli appassionati di scrittori italiani contemporanei.”
Sì, è proprio vero, Gaia Coltorti ha posto in campo un’interpretazione tutta contemporanea e nel contempo mirabilmente tardo-adolescenziale di Shakespeare. Senza spadaccini né cavalli, ovvio. Però con dentro tutto il Freud che doveva esserci. O tutto il Girard, certo. Se preferite.
Poi, da qualche parte – però non su Internet, o non credo – un giorno ho trovato questa comunicazione di Vicki Satlow, agente letterario di Gaia. Satlow scriveva: “Provate a fare un giro in libreria a gennaio. Uscirà la nostra nuova scoperta, Gaia Coltorti, vent’anni, che pubblicherà per Mondadori Le affinità alchemiche. L’ha scritto a diciassette anni. Ho iniziato a leggerlo alle sei di sera e l’ho chiuso alle tre di notte, senza riuscire a fermarmi. Non ho nemmeno cenato. Il giorno dopo si è fermata tutta l’agenzia. Avevamo trovato una fuoriclasse. E non lasciatevi ingannare dall’età, il romanzo è semplicemente geniale.” Così ho prestato ascolto. E be’, questo agente letterario sa di cosa parla, e dice la verità, e dice le cose esattamente come stanno. Gaia è straordinaria. Persino nel modo in cui si è presentata alle lettrici di Vanity Fair come me: immersa nella sontuosità del dimesso. Qualcosa che puoi permetterti solo se sei una grande.
P.S.: Riuscire a leggere Oriana Fallaci che scrive in seconda persona ha qualcosa di tremendamente eroico. Invece, leggere “Le mille luci di New York” del vecchio McInerney non può mai farti male. In ogni caso, non immattoniamoci e stiamo sempre piuttosto su con la vita. Dài.
A proposito dei romanzìni cosiddetti «scorrevoli»:
Da “Gioventù bruciata” a “Voci dalla luna”,
passando per Shakespeare e John Ford,
“Le affinità alchemiche” intuìto come riflessione
sull’amore e la fede
Un elemento che contribuisce a mantenere vive nella memoria storie tanto diverse fra loro – dal mitico “Gioventù bruciata” al, si parva licet, “Jack Frusciante” di Brizzi – è il fatto che sono storie di adolescenti, raccontate dal punto di vista degli adolescenti.
“Gioventù” è un film molto violento, che tuttavia non viene ricordato per la sua violenza. Descrive, invece, la dolcezza insita nell’animo di ogni ragazzo. I ragazzi arrivano al mondo pieni di curiosità, interesse e amore, ma quando questi loro sentimenti non sono corrisposti, vengono rapidamente deformati. Esiste un modo per trovarsi una famiglia, che non è necessariamente quella biologica: «È in “Gioventù bruciata”» dice lo sceneggiatore Stewart Stern, «che nasce il concetto di famiglia allargata. Credo che la creazione della famiglia in “Gioventù bruciata” sia essenzialmente la creazione della famiglia applicata a Woodstock, e nata durante il Sessantotto.»
Suona piuttosto credibile, non è vero?
Ora, varrà qui la pena ricordare che i modelli degli adolescnti non sono rappresentati dai genitori, ma da qualcosa, alle volte, di ben più implacabile: ovvero, i loro coetanei.
Chi sono i modelli di Giovanni e Selvaggia?
I genitori, no di sicuro, credo.
Seppure, pensandosi i nostri due giovani come coppia, forse, magari, sì?
Il padre notaio e la madre commissaria sono, magari, degli ostacoli?
Anche qui, direi d’impulso, non molto.
Forse, i modelli di Giovanni e Selvaggia sono il campione di nuoto in sé, e l’allieva di ginnastica ritmica bravissima in sé? O il mediatore del desiderio è proprio letterario, come il cavaliere Amadigi per Chisciotte, e si trova in “Romeo e Giulietta”?
Ma Romeo e Giulietta, propio come Amadigi per Don Chisciotte, sono già morti da secoli, la loro mediazione è da definirsi esterna e dunque, secondo la lezione girardiana, non potrà mai accadere che simili mediatori divengano ostacoli. Ma se così è correttamente posto, allora chi sono gli ostacoli di Giovanni e Selvaggia? La socieà in generale? Il tabù che dovrebbe tenerli a distanza? Il fatto che si sentono come un’anima sola in due corpi differenti?
Qualunque sia la risposta, i temi della ribellione e della sfida, ne “Le affinità alchemiche” – proprio come in “Gioventù bruciata” – sono presenti in dosi massicce.
La potente scena collettiva del capodanno, per esempio, lo testimonia con grande nitore e oltre ogni ragionevole dubbio: la scelta dell’outing impossibile, la confessione dell’amore incestuoso che lega i due giovani protagonisti, è uno scandalo di cui nessuno dei coetanei presenti al ballo potrà mai farsi carico né “ricevere”.
La strategia dei veleni e degli errori e fraintendimenti fatali che conducono a morte Romeo e Gulietta, nel romanzo di Gaia appaiono altrettanto ineluttabili che nella tragedia shakespeariana, ma del tutto interni ai personaggi, specialmente incorporati nella volontà autodistruttiva di Selvaggia: “Le affinità”, dice con chiarezza anche questo.
Se gli sposini di Shakespeare avevano contro la rivalità delle rispettive famiglie, Johnny e Selvaggia hanno per ostacolo il Mondo. E nessun prete o balia o servente, sopraggiungerà ad aiutarli.
Quando in “Voci dalla luna” di Andre Dubus il dodicenne Richie scopre che suo padre (Greg) vuol sposare Brenda, ex moglie del figlio maggiore Larry, l’ecosistema della famiglia Stowe mostra la reale gravità dei danni subìti. Richie, che è un ragazzino devoto e vorrebbe trovare spazio alla sua vocazione, confessa a padre Oberti il suo disagio, e il prete gli risponde: “Pensa all’amore. Loro sono due persone che si amano, ed è faticoso per loro come lo è per gli altri. E anche se è sbagliato, è lo stesso amore”.
Il romanzo di Dubus, abita tutto in questa risposta.
Come sostiene Peter Orner nella postfazione a “Voci dalla luna”, qui noi giungiamo in vista di ciò che il romanzo è: “una meditazione appassionata sulla natura della fede e dell’amore”.
Ora, mi (e vi) dico: non sarà che un romanzo come “Le affinità” è precisamente questo, e nient’altro che questo?
Però se all’incirca più o meno così fosse, invece di mandare in onda tutte ’ste puttanate lubrificanti tipo “È un romanzo piuttosto scorrevole!”, o “È una scrittura che va (o non va) su (o giù) scorrevolmente in guisa d’Implacabile Supposta”, bisognerebbe – dannata ciurma di storpi! – cominciare a pensàrlo (– parola chiave: pensàre, di quando in quando –), accidentaccio.
Dàì, Topi, si diceva anche un po’ per scherzinàre.
Ehi, vi sarete mica offesi.
Va bene. Chi comincia?
Bella recensione la tua Francesca, fa venir volgia di leggere questo libro del quale già ho sentito parlare.
Essendo scritto da una donna, anche se giovanissima, continua a stupirmi il fatto che Selvaggia interpreti nel romanzo un ruolo tanto negativo, alla fine, e sia costretta dall’autrice a prendere su di sé il fardello delle decisioni ultime e definitive in cui coinvolgere il più passivo Giovanni. Non è un tantino maschilista, da parte dell’autrice, prendere così tanto le difese del fratello? Questa è la mia critica principale. Critiche a parte, l’ho finito di leggere in dodici ore, ma se durava altre duecento pagine le avrei divorate e sarei stata più contenta. Mai letto niente di simile. E dire che qualcosa ho letto.
Un viaggio in treno a Roma, diretta ad un congresso, è stato il felice pretesto per acquistare ed iniziare questo romanzo.
Ieri sera l’ho finito e, richiuso ed appoggiato sul comodino, la sensazione di “lutto” è stata quella che mi assale quando finisco un libro che mi ha colpita.
Non credo servano riassunti visto che più rigorose e complete recensioni precedenti, l’hanno già fatto.
L’inizio mi ha vista un po’ scettica sulla scrittura: troppo ricercata come se l’autrice si sforzasse di piacere a tutti i costi.
Poi la sensazione iniziale ha lasciato il posto alla consapevolezza di una scrittura forse poco spontanea, ma scorrevole e ricca senza essere pomposa.
La trama che avrebbe potuto fare della morbosità la caratteristica principale del libro, riesce invece a non enfatizzarla, a farla percepire appena al lettore, molto più attratto dall’analisi di un sentimento così forte, magari a tratti poco realistico, ma mai morboso.
Ciò che più mi ha colpita è pensare che davvero l’affinità dei gemelli se non cresciuti insieme, possa generare un sentimento ancora più viscerale del semplice amore. Un sentimento per il quale, seppur con la leggerezza dei diciott’anni dei protagonisti, non si possa che soccombere.
C’è un passaggio nel libro esplicativo: i protagonisti, in albergo sono in due stanze attigue. L’uno percepisce la presenza dell’altro al di là del muro, fino ad appoggiarsi entrambi alla stessa parete, sentendosi vicini seppur divisi.
Il finale, inaspettato nonostante il riferimento a Romeo e Giulietta, ha seppur tardivamente reso maturi e consapevoli della impossibilità della loro storia d’amore e due protagonisti che sembrano non accorgersi per tutto il romanzo di quanto tragico ed impossibile sia il loro amore.
Perfettamente d’accordo con Gianni. Uno dei pochi libri che non sono riuscita a finire… E comunque mi ha molto infastidita la storia di incesto piu che di innamoramento.
Risposta a Laura – 24 febbraio 2013
Lei giustamente si stupisce del ruolo così negativo della protagonista femminile. Ipotizza che l’autore si maschilista.
Il personaggio di Selvaggia è molto simile a quello di Loretta, la protagonista del romanzo incestuoso “Colei che non si deve amare” (1910). Romanzo scritto da un donnaiolo gaudente e imitatore di D’Annunzio, che ha costruito una protagonista che è un perfetto topos decadente: la “donna fatale” bellissima e raffinatissima che porta l’uomo alla rovina e al suicidio. (Come accade nel romanzo del Da Verona). Nella ristampa del libro fatta da Pellegrini editore in Cosenza (2009), in prefazione sta scritto che la donna vi è rappresentata secondo i canoni dell’epoca, in cui le donne erano considerate senza cervello, solo “lussuria e sentimentalismo”. Maschilismo a go-go!!