Giuseppina Torregrossa Panza e prisenza

30 gennaio 2013
Scritto da: Susy

Giuseppina Torregrossa Panza e prisenza (Mondadori collana Le Libellule, 2012, € 10,00, pp. 189). Panza e prisenza in siciliano significa presentarsi invitati a cena o a pranzo a mani vuote. Quanto ha a che fare questo titolo con la storia? Nulla o quasi.
Marò (Maria Teresa Pajno) vicequestore aggiunto del quartiere Politeama di Palermo,  si ritrova a gestire un omicidio eccellente: Ruggero Maddaloni, principe del foro, uomo retto e onesto, «aveva difeso con la stessa passione ed il medesimo  impegno mafiosi d’alto rango e delinquenti di piccolo calibro… Su di lui mai l’ombra di un sospetto, una diceria, un pettegolezzo…».
Marò, nonostante la scarsa esperienza ha finalmente tra le mani un caso importante, che potrebbe rilanciare la sua carriera ormai arenata tra pratiche di routine e rinnovi di passaporti.
Gode dell’appoggio di un vecchio amico, il questore Lobianco, che è qualcosa di più di un amico. A legarli una malcelata attrazione che non si è mai tradotta in qualcosa di più concreto, ed una sincera amicizia, nata anni prima, in Aspromonte, nei loro primi anni di servizio.
E poi c’è Sasà, il commissario Rosario d’Alessandro, il terzo componente di questo gruppo di amici. Bell’uomo, donnaiolo, con un carattere piuttosto “fumantino”.
Due uomini affascinati ed una donna obiettivamente sensuale, tipicamente mediterranea, che non ha mai avuto il coraggio di scegliere tra i due, accontentandosi di una amicizia senza sbavature.
Il libro è pieno di descrizioni sensoriali: gusti, profumi, odori. Soprattutto odori. Marò ha un olfatto da segugio. E come tale si lascia giudare dal suo intuito alla ricerca del colpevole di un omicidio che, sulla carta, pare non avere alcun movente. Segue il suo istinto tipicamente femminile che la porta a scavare nella vita privata di Maddaloni, tra le mura domestiche, seguendo  anche i suggerimenti dell’amico Sasà con il quale si confronta, consiglia, ogni qualvolta lui si presenta a casa di lei sempre a mani vuote. Panza e prisenza per l’appunto!
Più o meno all’inizio o alla fine di ogni capitolo c’è una ricetta, tipicamente siciliana, chiaramente! Ed i dialoghi, le decrizioni degli ambienti sono intessuti di termini siciliani a cui ci ha abituati Camilleri. Pare di respirare l’aria dei quartieri di Palermo.
Nel complesso il libro mi è piaciuto anche se, per certi aspetti, mi ha lasciata insoddisfatta!
Mi aspettavo forse più colpi di scena nell’indagine di Marò, mi aspettavo un botto finale, una chiusura ad effetto, mi aspettavo più ribellione da parte dei personaggi, uno spirito più indomito…
Probabilmente il significato profondo del libro (comprese quelle che io ho trovato lacune),  è contenuta in questa riflessione di Marò che cito testualmente:
«Ogni delitto è per la società una ferita, perché cicatrizzi c’è bisogno di catturare il colpevole. Se rimane impunito, ecco subentrare l’oblio, che come una valanga di neve cancella le tracce di quanto avvenuto, il nome del morto, lo sgomento, la forza vitale di chi rimane, l’etica di un intero Stato. E se la ferita non guarisce, si trasforma in piaga e poi in malattia. Muoversi lungo le tracce di questa etica rimossa è compito degli eroi. Essi sono gli anticorpi che curano lo Stato malato».
Oppure nelle parole di Sasà: «La verità è per noi un dovere, Marò, e quando non si riesce a fare giustizia, bisogna almeno provare a fare pulizia.(…) appena chiudi un occhio, poi finisci per chiuderli tutti e due».

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