日本 la consistenza del dolce

7 gennaio 2011

Una cosa che ho sempre trovato deludente nei ristoranti giapponesi in Italia sono i dolci. I pochi che avevo assaggiato erano scipiti, senza personalità, indecisi. Qui ho scoperto che quello dei dolci non è il regno del sapore ma delle consistenze. Niente è dolce semplicemente nel senso di zuccherato, ciò che rende “dolce” nel senso di piacevole, ciò che fa della pasticceria giapponese un godimento (usato soprattutto fuori pasto) sono le consistenze in cui il sapore si incarna quasi ne fosse accessorio.
I primi dolci li ho mangiati lungo la salita al tempio di Kiumutsudera, a Kyoto: ci sono botteghe che vendono dolciumi di infinite varietà e tutti li puoi assaggiare gratis, tagliati in pezzetti e offerti in piccole scatole trasparenti. Passi e prendi, non sei obbligato a comprare.  Non ho mai amato i dolci, ma questi li ho assaggiati tutti. Non so i loro nomi, e nemmeno gli ingredienti, tra cui riconosco solo gli atzuki, fagioli dolci con cui si prepara una crema simile alla nostra di marroni, il sesamo, la cannella, il tè verde e naturalmente la farina di riso. Ci sono fagottini simili a ravioli fatti di una pasta elastica e sottilissima bianca o nera o verde di tè con un palline di atzuki per ripieno; cupolette di farina di riso dalla consistenza spugnosa o gommosa ed elastica con il medesimo ripieno; cilindri di una pasta liquida che si indurisce cuocendo sulla piastra calda e viene riempita di castena, una specie di crema pasticcera leggerissima; torte a cerchio col buco in mezzo di un pan di Spagna al tè verde che si affettano da un lungo cilindro infilzato su una specie di girarrosto. Ci sono dolci a cupoletta formati da chicchi croccanti; zenzero e cachi essiccati o canditi; bonbon ricoperti di sesamo; bacchette con la consistenza del gesso e il sapore della cannella o del tè verde. Il gusto non ha specifiche che spiccano, ma la lingua affonda nel morbido e liscio o lotta con bocconi elastici che si aggrappano al palato, i denti restano inerti in questo affondo fatto più di materia che di sapore, o sono chiamati alla battaglia dalle consistenze gessose e dai dolci croccanti che non hanno mezze misure: all’interno di una lunga cialda dorata e arrotolata a sigaretta, una bacchetta di zucchero duro per ripieno.
A Kyoto ci attrae un laboratorio aperto sulla strada che sforna ed espone su trespoli file di palline perfettamente tonde e perfettamente bianche, le stesse che vedo offerte nei templi in piramidi di tre, di dimensioni decrescenti. Le compriamo e le morsichiamo golosi per scoprire che sono completamente insapori, fatte di una pasta vischiosa e ostile a farsi deglutire. Riescono comunque a offrire un momento di piacere, e di risate. Il giorno dopo leggo sull’Ansa che i morti di Capodanno in Giappone sono stati nove, soffocati dai mochi, tipici dolci della festa, e la notizia non riesce a sorprendermi. Anche in questo i giapponesi non conoscono mezze misure: a differenza dei nostri botti di Capodanno, i loro dolci non fanno feriti.

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