VIAGGIO IN SICILIA cap.1
Segesta, Gibellina, Cretto di Burri

5 agosto 2019

Scritto da: Francesca Magni

“Se persino tu smetti di scrivere, non c’è più speranza per le parole”… Mi prende in giro così mio marito. Sa quanto per me sia importante trasformare in racconto quello che vedo, e non si capacita del perché in questo viaggio in Sicilia così ricco di stimoli e sensazioni io non abbia ancora scritto una parola. È che provo una specie di afasia, una attonita soggezione. Cosa potrei mai dire della Sicilia che non sia stato detto? Chi sono io per dire di una terra di cui so troppo poco e di cui chi la abita si sente proprietario esclusivo? Così ho cominciato il racconto di questo viaggio attraverso le immagini: nelle storie su Instagram (basta cliccare sul contenuto in evidenza ‘Sicilia’ nel mio profilo @balmarose).

Un mezzo moderno, effimero e per certi aspetti sciocco, foto coperte da menzioni, hashtag, qualche volta gif animate un po’ stupide che sembrano voler rafforzare quello che la foto già trasmette, come se non ci fidassimo più di niente, come se, proprio nell’era della iper comunicazione, sentissimo di non riuscire a comunicare. Eppure le storie di Instagram hanno la loro malia, posti e qualcuno le vede, risponde, commenta, corregge se hai detto cose imprecise, suggerisce se ha visto cose che rischi di perderti. È la vita in diretta. Appaga il bisogno, tutto contemporaneo, di offrire agli altri parti distillate di sé. Per me è anche un modo per giocare con un’arte che non mi appartiene mai abbastanza, la fotografia.

Ma le parole.

Covano sempre da qualche parte. Perché come fai a mostrare con un’immagine quello che provi al Cretto di Burri? Ti appare come una lingua bianca e crepata adagiata tra valli di colline dolci, ulivi, viti, grano che in agosto è già mietuto, e sulle creste file di pale eoliche che il vento fa muovere insieme a qualche nuvola di fumo. È tempo triste di incendi, qui in Sicilia. La strada asfaltata si srotola nelle curve sotto il sole fino a chiarire che quella lingua bianca è un labirinto di cemento, isole alte poco più di un metro e mezzo e solcate da vicoli che ricalcano l’antica rete viaria di Gibellina, e si posano sulla collina assecondandone i pendii. Sotto, le macerie del terremoto del 1968.

Lasciamo la macchina alla prima curva, senza nemmeno aspettare il parcheggio, e sotto il sole infuocato imbocchiamo il dedalo di “crepe” (è proprio questo il significato di cretto: crepa nell’intonaco) e ci sparpagliamo ognuno per una via immerso nella sua emozione. Camminiamo sulla memoria. Alberto Burri, invitato da Ludovico Corrao, sindaco di Gibellina, a partecipare alla ricostruzione insieme ad architetti e artisti dell’epoca, ebbe l’idea di trasformare le macerie in un monumento a se stesse. Mentre ti arrampichi sulle salite ripidissime di cemento bianco non puoi che sentire quei morti, donne, vecchi e bambini, che gli uomini erano per lo più emigrati da questa terra poverissima, e ti sembra che il gesto stesso del tuo corpo sia una preghiera.

Nuova Gibellina sorge a una ventina di chilometri da qui, per non toccare le terre di un boss dovettero allontanarsi dal sito originario. Le fantasie da città ideale, le piazze geometriche che sfidano lo sguardo, le villette squadrate – un tempo ingegnose e oggi lasciate scrostare da una mentalità per cui fai bello ciò che è in casa e te ne catafotti di ciò che sta subito fuori – raccontano un’idea di città che negli anni ‘70 doveva sembrare illuminata ma che il tempo ha rivelato inadeguata ai bisogni umani. Almeno così sento, nei 36 gradi del primo pomeriggio quando le esposizioni del Gibellina Photo Road, benemerito evento estivo dedicato ai giovani fotografi, sono esposte senza parole come in un deserto. Ma la Chiesa Madre di Ludovico Quaroni è bellissima con la sua sfera bianca che stimola a girarle attorno e sotto per fotografarla da ogni prospettiva, come un satellite caduto sulla terra.

Gibellina vecchia e nuova è il contenuto di una giornata fra parentesi, iniziata a Segesta e finita a Segesta. Insieme a Selinunte è un sito archeologico di scioccante bellezza, qui il tempio dorico è in piedi da 25 secoli, e al teatro la sera ci immergiamo nella cultura greca con “Ecuba” di Euripide, un tuffo in storie estreme di guerra e vendetta, in quella “soap” epica e tragica che si dipana dalla guerra di Troia e fonda miti archetipici. Davanti a me una ragazza piange mentre Polissena, figlia di Priamo, destinata a essere sacrificata sulla tomba di Achille, convince la madre a non combattere per lei, che accetterà il suo destino con un ultimo gesto di libertà; e piange quando Ecuba si strazia per il figlio Polidoro restituitole cadavere dal mare dopo che Polimestore a cui era stato affidato insieme e molto oro lo ha ucciso tradendo la fiducia. La vendetta di Ecuba, sostenuta da Agamennone, è acciecare Polomestore e ucciderne i figli, ma da lì arriverà la profezia della morte di Ecuba e di quella violenta di Agamennone e della sua schiava e concubina Cassandra, figlia di Ecuba pure lei. Nel dipanarsi della vicenda, in cui due ancelle riassumono i cori, verità eterne cadono fra le pietre dell’anfiteatro: che i vinti si accontentino di vincere e non oltrepassino la misura, che l’uomo sia consapevole della propria violenza perché nessun dio gli è pari in questo.

La discesa dal colle del teatro si affaccia sul tempio di Segesta, che da rosa di giorno si fa bianco con l’illuminazione della notte. Ci sono arancine e salamelle al finocchietto all’arrivo, qui a Segesta c’è un minimo di ristoro turistico, inclusa una fastidiosa radio a tutto volume per tutto il giorno, e un macchinoso sistema di navette che ti trasportano da un parcheggio immotivatamente lontano. Ma sulla navetta un gruppo con fisarmonica e tamburello ti intrattiene con canti tipici e da turista in vacanza tutto l’assurdo diventa sopportabile, scambiato per folklore; lo stato d’animo del viaggio ci induce a tollerare e tacere. Che è da sempre il male nostro.

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