Novembre, tempo di open day:
scappate, genitori, scappate!

17 novembre 2018
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scritto da: Francesca Magni

NOVEMBRE, TEMPO DI OPEN DAY. I genitori si affollano nelle aule magne delle scuole. Capitanato dal/dalla dirigente, il corpo docente è in grande spolvero. Al posto d’onore il prof arguto e il gigione; ove l’età lo consenta, gli allievi migliori si prestano a testimoniare la bontà della scuola, immancabile la “quota DSA”: il/la dislessico/a assicura di trovarsi benissimo.

Nell’aula magna del liceo classico Parini di Milano per due anni di seguito (per figlio e figlia) abbiamo ascoltato il preside Soddu incantare la platea con la sua oratoria quieta, senza giochi di prestigio, poggiata su quello che mai abbiamo dubitato essere un autentico amore per la lingua e l’etimologia, per il pensiero classico, per l’esercizio delle domande. E poi c’era quella cosa, piccola ma gigantesca, che per due volte ci ha fatto dire sì: il suo liceo, prometteva il dirigente Soddu, avrebbe spostato l’accento dall’insegnamento all’apprendimento. Uno slittamento semantico che vale una rivoluzione. La rivoluzione che aspettiamo.

Ai miei tempi quando finivi le medie sceglievi classico, scientifico, linguistico, ragioneria, istituto tecnico. Punto. Oggi scegli il piano dell’offerta formativa, il patto di corresponsabilità, gli indirizzi resi possibili dall’autonomia scolastica, le offerte extra per lingue e certificazioni, il teatro, lo sport, scegli l’impostazione didattica dichiarata sul sito della scuola e presentata nello show dell’open day. Scegli quella che ti viene venduta come la filosofia di quella singola scuola.

Venduta: è il termine preciso. In base a questo commercio di promesse e al marketing che lo sostiene si smuovono masse di famiglie che vivono, nella selezione della scuola dei figli, lo stesso dilemma contemporaneo della scelta dell’operatore telefonico, del fornitore di energia elettrica, della banca, delle polizze assicurative o dei prodotti al supermercato. Famiglie costrette a essere esaminatori informati e responsabili di offerte.

Ci è dato, oggi rispetto a una volta, di esercitare più consapevolezza? Ci è concessa più trasparenza? Abbiamo a disposizione un’offerta più variegata? Può darsi. Ma dove c’è una promessa, nasce una responsabilità. E se ai miei tempi sceglievo un liceo e come andava andava, oggi no. Oggi sono autorizzata ad andare dal dirigente e a dirgli «Ehi, ma la sua non era la scuola che si preoccupava dell’apprendimento e non si limitava all’insegnamento?». E così un figlio ha lasciato quel liceo dopo due anni di valutazioni che ignoravano le sue caratteristiche specifiche dell’apprendimento; ok non era una mela tonda e perfetta di quelle che vengono esposte agli open day. Ma sua sorella? Lei sembra avere le carte in regola.

Dei 600 vocaboli di greco dati da imparare a memoria dal suo professore, mia figlia ne sa in velocità l’80%. Un altro 15% lo sa con incertezze e un 5% non l’ha ancora assimilato. Il compito dei vocaboli la terrorizza, la rassicuro dopo averglieli provati TUTTI:

«Li sai, davvero, stai serena».

«Ma quando sono lì a volte non mi vengono», dice lei…

Lo so bene, penso, esiste l’emotività, quella cosa che impieghiamo vite intere per imparare a dominare; ma non glielo dico: l’altro giorno la sua prof di matematica ha fatto sapere alla classe che non sopporta chi usa l’ansia come giustificazione per gli scarsi risultati.

Il compito dei vocaboli greci va così così: su 20 ne traduce correttamente 12, il voto che prende è 3. Abbandono in pochi minuti l’impresa di individuare quale fosse il criterio di valutazione.

«Toglie un punto per ogni errore», mi spiega mia figlia.

«Ma allora avresti dovuto prendere 2».

«Giusto», fa lei, «quindi mi è andata bene».

«Ma significa che la scala di voti del professore va da -10 a +10», aggiungo perplessa. Ma lei giustamente ha smesso di ascoltarmi, non tutti i nonsense sono divertenti.

Se mi chiedessero di associare una parola alla scuola come l’ho conosciuta da quando sono genitore, risponderei: LOTTERIA. Per i numeri, tanto per cominciare. Miriadi di voti, una pioggia, decine di compiti scritti la cui media spesso finisce nella casella dell’orale, voti che hanno perso non solo una logica formativa ma persino una logica matematica (in un sistema di valutazione decimale, 12 risposte esatte su 20 fa 6, porca miseria!). Numeri che puoi giusto giocarti al Lotto, e ridere per non piangere.

Lotteria perché nella stessa scuola fai una scuola diversa a seconda della classe in cui finisci.

Lotteria perché i criteri di valutazione sono tanti quante le teste di chi insegna.

Lotteria perché non tutti i professori sanno avere a che fare veramente e proficuamente con i diversi stili di apprendimento.

E così ti resta un tarlo che scava dentro dal giorno dell’open day: la promessa. Sì ti avevano fatto una promessa. Una certa filosofia di scuola che ti aveva conquistata.

«Mamma, i professori odiano il preside», mi spiega con realismo mia figlia. «Non importa a nessuno cosa pensa lui della scuola, loro sono sicuri di essere bravi così».

Ha centrato il punto, lo stesso dirigente lo scorso anno, interpellato a proposito della prof di latino di nostro figlio, aveva confessato la sua difficoltà ad allineare un corpo docente così vasto e non selezionato da lui su una precisa filosofia di scuola. Quel colloquio mi è tornato in mente qualche giorno fa, ero a una riunione nel liceo paritario che ora mio figlio frequenta: la dirigente ci informava che la docente di filosofia è nuova e che la stanno ancora formando sui metodi della scuola. Mi sono accorta che ascoltavo e sorridevo.

Asilo, elementari, medie, liceo: sempre scuola pubblica. Volevamo che i nostri figli fossero in classe con il mondo, con la gente vera che vive nel nostro quartiere; volevamo che fossero immersi in una realtà complessa, variegata, anche difficile, ma che stimola l’interesse per la diversità, la capacità di immedesimazione, lo spirito di convivenza. Non volevamo una scuola confessionale – pensiamo che educazione e fede debbano abitare in dialogo, non in subordinazione una all’altra. Non volevamo una scuola inglese per famiglie facoltose, persone che avrebbero rappresentato uno spaccato molto parziale della società in cui viviamo.

Poi un giorno non abbiamo avuto più scelta. E la scuola paritaria (non generalizzo, intendo quella che abbiamo incontrato) si è rivelata più attenta, più ragionevole, più coerente. Più preoccupata dell’apprendimento. Ne siamo felici e anche tristi, come quando non si riesce più a credere in ciò in cui si crede.

E ora che è novembre, tempo di open day, ai genitori che si affollano nelle aule magne delle scuole, vorrei urlare: disertate, sottraetevi. Come si fa con un cattivo prodotto, con una pubblicità ingannevole, con un marketing menzognero. Non vi dico di fuggire la scuola pubblica, (resta l’ideale in cui voglio tornare a credere), ma di non darsi in pasto al falso rito di trasparenza.

Iscrivete i figli come si faceva una volta, classico, scientifico, linguistico, tecnico… Iscriveteli alla scuola più vicina a casa, o a quella dove vanno i loro amici. Non è vero che una scuola famosa li preparerà meglio: potrebbe semplicemente distruggere la loro immagine di sé, ferirli per sempre, sgretolare il loro senso di equità, piegarli ai piccoli sadismi che fanno pochissimo rumore e tantissimo male.

Riprendetevi in mano la responsabilità della loro formazione, studiate percorsi creativi e su misura per i loro interessi e talenti. Il mondo, che lo vogliamo o no, ci chiede di essere in prima linea anche dove un tempo era possibile affidarsi. E allora impedite ai circhi di nani e ballerine di sedurvi con promesse vane. Disinvestite dal rito della scelta, non caricate questo passaggio di significati troppo grandi. Solo abbassando le aspettative, spegnendo i fari sulla scuola, liberandoci di essa come status symbol familiare (è questo che sta diventando) la spingeremo forse a rifondarsi davvero e a diventare quello che deve essere: un luogo in cui si impara con entusiasmo.

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