cosa pensavo (e penso) del velo islamico

26 luglio 2016

2007-42burqa

Era l’autunno del 2007 quando scrissi questo articolo. Su Facebook in Italia non c’era quasi nessuno, la crisi economica era iniziata da così poco che si poteva pensare fosse passeggera, la Svizzera aveva appena aderito al trattato di Schengen, George W. Bush sganciava bombe al cloro su Baghdad, nessuno sapeva che Berlusconi facesse il bunga bunga e gli sbarchi di immigrati in Italia erano stati 20.455 contro gli 89.000 in soli 7 mesi del 2016. I miei figli andavano alla scuola materna, io avevo 9 anni di meno, e così il mondo.

Lavoravo a Donna Moderna, all’epoca, e mi occupavo attualità. Si parlava molto di burqa, un velo integrale  che nessuno di noi aveva visto se non nelle foto di Afghanistan con cui i fotografi vincevano il World Press Photo. Da noi era il burqa (sconosciuto) il vero scandalo, mentre già migliaia di immigrate giravano con quello semplice, attorno al viso e noi al più commentavamo che anche le nostre nonne lo indossavano la domenica a messa. I francesi invece già se ne (pre)occupavano: da loro, ex potenza coloniale, l’immigrazione musulmana è storicamente più antica e radicata, e proprio in quegli anni iniziavano i provvedimenti dello Stato laico per vietare alle ragazze di indossare il velo a scuola, alle donne di portarlo nelle foto sui documenti. Una simile forma di dibattito aveva lambito anche l’Italia, dividendo le opinioni come sempre in tre derive: leghismo, democristianismo e sinistrismo.
A me le donne col velo mettevano tristezza e paura. Ma erano anni in cui, se lo dicevi, o ti beccavi della razzista o ti zittivano dicendo che la minigonna è il velo di noi occidentali. Era impossibile intavolare una leale discussione sul tema. Il mio punto di vista, poi, era decisamente radicale. Pensavo, e penso, quello che allora scrissi – benché in punta di piedi – in questo editoriale su Donna Moderna.
Mi capitava di tanto in tanto il privilegio di una pagina da ‘opinionista’, e ogni volta era bellissimo essere subissati di lettere da sconosciuti lettori, a volte entusiasti, altre critici ma sempre desiderosi di discutere. Solo questo editoriale non suscitò nemmeno una reazione. Passavano i giorni, le settimane: niente, non una lettera. Sembrava che nessuno lo avesse letto.

Da un lato ne fui sollevata, sapevo di essermi infilata in un vespaio. Dall’altro pensai con dolore a quanto siamo miopi: i problemi delle donne che indossano il velo non ci interessavano; ignoravamo, insieme alla loro situazione di oppressione (oggi dovrei riuscire a dirlo senza che qualcuno mi sbatta in faccia lo stupido paragone con le minigonne), ignoravamo le conseguenze di quella oppressione. Ignoravamo che, solo nove anni dopo, la nostra casa Europa sarebbe diventata luogo in cui si muore in attentati che, nelle infinite e tortuose vie che prende la follia umana, riconducono, causa o pretesto che sia, a un islam malinteso e radicalizzato di cui quel velo è la prima bandiera. A Kabul, negli anni ’40 le donne vestivano come noi e non portavano nessun velo, pur essendo in maggioranza musulmane.
Nel 2007 mia figlia aveva 4 anni e io sognavo di consegnarla a un mondo migliore. Pensavo che se la generazione della mia mamma era riuscita a portare le donne italiane fuori casa guadagnando per loro un nuovo rispetto, il diritto al lavoro, al divorzio, all’aborto, la mia generazione avrebbe dovuto consolidare e poi contagiare con quella rivoluzione le donne che ne sono più lontane. Oggi penso che se allora fosse nato un dibattito sulla condizione delle donne nell’islam, se noi le avessimo aiutate a iniziare il loro cammino di emancipazione – come alcune musulmane colte e lungimiranti chiedevano – avremmo dalla nostra parte la metà femminile della popolazione islamica. E si sa: gli uomini fanno le guerre o uccidono per follia inneggiando alla prima bandiera che riescono a issare, le donne fanno le rivoluzioni. Al timido appello di quell’editoriale, però, non rispose nessuna.

 

 

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