Elizabeth Strout: «Per diventare scrittore devi trovare la vita divertente»
(intervista su I ragazzi Burgess)

30 ottobre 2013

Elizabeth Strout ha 57 anni e non un filo di trucco. Niente, nei suoi modi semplici, fa pensare che abbia vinto un premio Pulitzer e che sia una delle più raffinate scrittrici americane, in corsa per diventare un classico. Mi guarda con occhi curiosi dietro una montatura squadrata, «Che belli i tuoi occhiali» dice, ed è subito come chiacchierare con un’amica. Il tema che le sta a cuore sono le relazioni. I suoi romanzi raccontano storie minute ma capaci di trascendere il tempo e lo spazio in cui sono circoscritte per diventare parabole universali. Al centro dell’ultimo romanzo (il quarto), I ragazzi Burgess (Fazi), ci sono Jim avvocato spregiudicato, Bob avvocato fallito, Susan madre separata e intristita rimasta a vivere nel Maine. Tre fratelli segnati dalla morte del padre in un incidente quando erano piccoli. Uno di loro ne è stato la causa e, in modi diversi, il senso di colpa ha determinato le vite di onguno. I tre si ritrovano quando Zac, il figlio di Susan, adolescente ombroso e sofferente per la mancanza del padre, lancia una testa di maiale surgelata nella moschea della comunità somala di Shirley Falls, l’immaginaria città del Maine in cui la Strout ambienta i suoi romanzi.
Le vite dei ragazzi Burgess sono determinate dal tragico episodio della loro infanzia. Quando siamo forgiati dal nostro passato? «Moltissimo. Noi siamo il risultato dell’incontro fra la natura con cui nasciamo e il modo in cui veniamo trattati da piccoli. Per questo i fratelli possono non somigliarsi per niente. Possono vivere le stesse cose in famiglia e crescere con una rielaborazione completamente diversa».
È quello che succede nel romanzo. Lei suggerisce che non esistano fatti, ma storie. È così?
«Nella vita accadono alcuni fatti, non molti. Ma non sono loro la “verità”: è come noi ce li raccontiamo. Le faccio un esempio. Un giorno, dopo la morte di mio padre, mia madre chiese a me e a mio fratello: “Qual era il gusto di gelato preferito di papà?”. Mio fratello disse: fragola, che è il suo gusto preferito, io dissi cioccolato, che è il mio gusto preferito, e mia madre disse caffè, che è il suo gusto preferito! Tutti convintissimi. Abbiamo completamente riscritto la memoria di nostro padre. Ed è quello che facciamo con tutto ciò che ci accade. Noi non sappiamo, riscriviamo».
Lei ha l’abilità di far sgusciare fuori una storia da un dettaglio: basta il modo in cui Bob guarda fuori dalla finestra per capire come si sente. Basta una nota sull’abbigliamento di Susan per intuire che è vagamente depressa. Dove l’ha imparato? «Non lo so, mi viene istintivo. Ma forse, a pensarci, è stata mia madre. Sono cresciuta in campagna e lei amava le piante, le chiamava per nome e mi portava nei boschi a vederle fiorire. Mi ha addestrata a cercare i particolari. Mi ha insegnato che non c’è niente che non sia interesante».
Sua madre le raccontava storie, da bambina? «Sì, era straordinaria! Usava una voce asciutta, nessuna coloritura, nessuna variazione del tono, così non sapevi quando stava per arrivare un colpo di scena e la sorpresa era assoluta».
È quello che fa lei nei Ragazzi Burgess quando, dopo averci raccontato una storia per 314 pagine, svela qualcosa che cambia tutto… «Sì, mi è venuto in mente mentre scrivevo, è stato il carattere di Jim a suggerirmelo. I personaggi a un certo punto prendono vita propria, sono loro a dirti cosa Ë successo nel loro passato».
Cosa rende i rapporti tra fratelli cosÏ difficili e delicati?
«Il risentimento: ne siamo tutti pieni. Pensiamo sempre di non avere avuto abbastanza, anche da adulti non smettiamo di crederlo, pensiamo che i genitori abbiano fatto differenze. E questo ci mette in conflitto con i fratelli».
La madre di Susan Burgess, Susan stessa, per non parlare di Olive Kitteridge: tutte hanno in qualche modo danneggiato i figli con un legame affettivo distorto. È inevitabile che accada? «Succede soprattutto con persone che, per cultura, sono fredde e addestrate a non considerare le proprie emozioni. Olive, Susan e la madre si Susan sono tutte del New England, la terra dove sono cresciuta. Lì le persone sono fredde, non parlano dei loro sentimenti, li lasciano inespressi, sotto la superficie. Se una persona attraversa la vita senza esprimere emozioni, smette di sapere cosa siano. Se una cosa non la nomini, non esiste».
C’è qualcosa di autobiografico? «Non in senso stretto. Con mia figlia parlo moltissimo di sentimenti. Però se non avessi avuto una madre e se non lo fossi stata a mia volta non avrei potuto creare personaggi come Susan Burgess e Olive Kitteridge».
Cosa cerca quando legge un romanzo? «Una voce che da seguire. Non leggo per il tema né per la trama, che trovo irrilevanti. Per me il piacere è sentire la voce del narratore, ascoltare cosa ha da dirmi».
E quando scrive cosa cerca? «Lo stesso: una voce. È difficile, perché è una voce diversa ogni volta. Non è semplicemente me».
Per questo ha impiegato 7 anni a scrivere I ragazzi Burgess? «È stato un lavoro lungo anche perché, inserendo nella storia la comunità somala del Maine, ho dovuto studiare. Ho letto decine di libri, ho parlato con loro, ho cercato di entrare nelle loro teste. Ho imparato a memoria una montagna di proverbi africani, anche se poi nel romanzo non ne ho scritto neanche uno. Mi sono serviti per pensare come loro».
Quanto tempo spende a leggere e quanto a scrivere? «Scrivo 3 o 4 ore al giorno, ma quelle che dedico alla lettura sono molte di più. Spesso rileggo classici, è stupefacente quanto sembrinodiversi se li riapri a distanza di anni. Ora aspetto con ansia la terza puntata della trilogia dell’Amica geniale di Elena Ferrante, che in America esce a fine novembre. Ha uno stile che mi piace molto».
Raccontare storie ai bambini può renderli futuri scrittori? «Sì. Gli scrittori devono trovare la vita divertente e le storie stimolano a essere interessati e curiosi. Mia madre mi ha insegnato questo: non c’è niente che non sia interessante. Insegnava inglese e avrebbe voluto essere una scrittrice. Ho esaudito io il suo desiderio».
Lei raccontava favole a sua figlia? «Non ero brava a parlare di unicorni o roba simile. Però mia figlia era bravissima a imitare, tornava da scuola e mimava cose fatte o dette dai compagni e attorno a quelle inventavo storie che potevano essere vere».
Lei ha insegnato scrittura creativa. Cosa consiglia a un aspirante romanziere? «Leggere i classici. Osservare. Scrivere, cancellare e riscrivere, senza smettere mai di cercare».

Scritto da: Francesca Magni

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