che ve ne sembra dell’America? /4

16 aprile 2012

united colors

Nella sala sono in minoranza. Sono chiara, chiarissima. Sto alla base della scala di sfumature. Tra me e il nero centrafricano in abiti dorati seduto due poltrone più avanti passano una dozzina di tonalità. Caramello, cannella, ambra, sabbia, cioccolato al latte, caffè, terra bagnata… Mariette Monpierre è la regista del film di questa sera al Lincoln Center di New York: Elza, storia di una ragazza di Guadalupa cresciuta dalla madre a Parigi, che dopo la laurea torna sull’isola dove è nata per ritrovare il padre; lui ha un’altra famiglia e vive una vita ricca, piena di ipocrisie e contraddizioni, a cominciare dal fatto che ha una moglie bianca, proibisce alla figlia di sposare il creolo da cui ha avuto una bambina, e ha per amante una donna nera.

Il film parla di chi è costretto a crescere senza un genitore e ne sente la mancanza. Ma parla anche del senso di superiorità della razza chiara. «In Francia sono più razzisti che in America» dice con naturalezza Mariette: ha un viso bellissimo, dorato, lentiggini, capelli come fusilli, nata a Guadalupa, cresciuta a Parigi. Francia, Italia. Da noi non posso immaginare un pubblico in sala come questo, nemmeno in un festival del cinema africano.

Stamattina al Morningside Park ho visto un uomo bianco chiedere a un bambino nero di riprendergli una palla da baseball e quando il bimbo gliel’ha portata lui lo ha fatto giocare un po’ per ringraziarlo. Sulla metropolitana un ragazzo nero guardava dubbioso le fermate e un coetaneo bianco l’ha spontaneamente aiutato a trovare la strada e poi gli ha detto Belle quelle scarpe, sono dei…? e ha citato una squadra non so se di baseball o di football e si sono messi a parlare di sport per tutto il viaggio. Non dico che qui va tutto bene, ma in questo racconto usare bianco e nero mi è costato uno sforzo. Qui, a NYC, questa differenza davvero non la percepisci, non c’è nel modo in cui le persone si pongono fra loro (c’è nel censo ma quello è un altro discorso). La varietà è tale che dire bianco e nero sarebbe come citare due colori di una scatola di pastelli  da 120. Due con altri 118.

Allora mi viene in mente Ellis Island, dove per circa 50 anni ogni giorno sono sbarcati migliaia di immigrati da tutto il mondo: 50 lingue diverse, 12 milioni di persone arrivate tra il 1892 e il 1954, per non contare quelle prima e quelle dopo. Venivano sottoposti a controlli medici in batteria, qualcuno si ritrovava un segno di gesso sui vestiti e veniva messo in quarantena come sospetto, poteva restare giorni all’ospedale (per anni a Ellis Island gli Stati Uniti si sono fatti carico della spesa sanitaria per milioni di immigrati!), qualcuno (il 2 per cento) veniva rimpatriato, ma gli altri entravano e via, a cercare il loro angolo di America. Lo trovavano, perché l’America aveva bisogno di loro quanto loro dell’America. Entrambi lo sapevano. Dai due lati si è dato e si è preso.

All’istinto naturale degli immigrati di riunirsi in comunità per paese d’origine si aggiungeva l’invito a seguire le night school di inglese e di civiltà americana. Allo scoppio della prima guerra mondiale la propoganda chiese agli immigrati di dimostrarsi americani, di arruolarsi, di risparmiare il cibo per i soldati. In cambio partì una campagna per dare loro la cittadinanza, nelle strade fiorivano botteghe in cui scattare la foto per il nuovo documento di cittadino degli Stati Uniti d’America.

Pochi giorni fa, in Texas, ridevo sentendo urlare God bless the United States prima dell’inizio di un rodeo. Invece proprio in quel grido è la forza di questo paese che ha voluto diventare quello che è diventato. Certo è stato facilitato dalla disponibilità naturale di spazio e di risorse, ma lo ha scelto e fortemente voluto e perseguito. Un caso unico al mondo. Un laboratorio sperimentale che sarebbe ora di considerare come tale, a prescindere da giudizi politici o ideologici, concentrandosi sulla peculiarità di quell’intenzione. Perché qui si è capito che in tanti e diversi (diversissimi!) si poteva diventare uniti e forti? Perché nel resto del mondo no?

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