voglio una stanchezza più giusta
(Byung-Chul Han La società della stanchezza))
Tra le decine di libri che ogni giorno fanno traboccare la mia scrivania e il mio senso di inadeguatezza (non potrò mai guardarli tutti!), un lunedì di ordinaria frenesia eccone comparire uno piccolo piccolo. La società della stanchezza (edizioni Nottetempo, 2012, € 6,00). L’autore, Byung-Chul Han, è un filosofo di origini coreane che lavora in Germania e studia gli effetti della globalizzazione sui ritmi di vita delle persone. Sarà la mole non molesta, sarà il titolo: mi ci butto con il sollievo con cui ci si fa abbracciare quando si è affranti. Ecco cosa sostiene: «la società disciplinare fatta di manicomi, prigioni caserme e fabbriche» ha lasciato il posto «a una società fatta di fitness center, grattacieli di uffici, banche, aeroporti, centri commerciali», un mondo pieno di cose all’apparenza positive che ci saturano e ci portano a vivere non più sotto il dominio dell’obbligo ma sotto quello della prestazione; «L’eccesso di stimoli, informazioni, impulsi, e il carico di lavoro sempre crescente modificano radicalmente la struttura dell’attenzione». Ci fa perdere l’attenzione profonda.
Non so che effetto faccia a voi, ma so che parla di me. Penso a tutte le volte che inizio una frase e non so più come finirla perché un secondo pensiero si è accavallato al primo, portandomi lontano. Quando gli stimoli sono troppi, dice il filosofo coreano, si produce iper-attenzione, che è uno stato di allerta, un’attenzione diffusa ma superficiale. Si diventa multitasking, che erroneamente consideriamo un progresso: in realtà è un regresso, «il multitasking si trova tra gli animali, è una tecnica dell’attenzione indispensabile per la sopravvivenza nell’habitat selvaggio».
Senza nulla togliere alla benedetta abilità (tutta femminile) di fare più cose insieme, penso sia il momento di aprire un dibattito sul tema: fare mille cose insieme costa, costa carissimo. Fatica. Ansia. Stato di allerta costante. Ma soprattutto sterilità mentale: mai come ora in cui sembra che io sia così vulcanica, sono stata tanto arida. Senza idee. «La pura frenesia non crea nulla di nuovo, ma riproduce e accelera ciò che è già disponibile», spiega Han. La mia mente funziona come un ipertesto in cui il pensiero cade di continuo su link interattivi, che si aprono e mi portano altrove facendomi dimenticare da dove venivo e cosa volessi fare.
È una dimensione surreale che ricorda il viaggio di Alice nel paese delle meraviglie, ma di meraviglioso non ha proprio niente, solo sequenze di stimoli a cui rispondere, e in fretta. Nessuno si sognerebbe di seminare un fiore e di urlargli “Sboccia subito!”. Eppure a noi è richiesto. Sul lavoro, a casa, con gli altri. Paul Cézanne, grande contemplativo, diceva che sarebbe stato in grado di “vedere” anche l’odore delle cose. Passava ore a osservare le famose mele dei suoi dipinti. Non gli chiedevano di svolgere mansioni diverse e sempre di più, di essere contemporaneamente una madre attenta alle esigenze pratiche ed emotive dei figli, di organizzare la quotidianità di una famiglia, di perseguire i suoi legittimi desideri e interessi, di essere sempre presente per chiunque avesse bisogno di lui, dalle amiche ai parenti. Cézanne poteva permettersi il vuoto, il silenzio, la solitudine. “Non si è mai più occupati di quando non si fa nulla, non si è mai meno solo di quando si è soli”, diceva Catone.
Io, mamma lavoratrice del Terzo Millennio, non esigo tanto. Ma una cosa ho deciso di chiederla: una stanchezza più giusta. Quella che Han definisce “stanchezza fondamentale”, che «abitua l’essere umano a un particolare abbandono, a un quieto non-fare in cui si risveglia una particolare capacità di vedere». Una stanchezza che sia intervallo spossato ma lieto. Che sia come quella della terra quando viene l’inverno e lei resta immobile sotto la coperta del freddo sembrando morta, e invece si rigenera. Non è della lentezza che abbiamo bisogno; non ho mai condiviso i manifesti per una vita più lenta: il mondo corre e a me correre piace. Però voglio che mi sia concessa una stanchezza giusta, che non è quell’incessante andare della mente alle cose da fare, ma è il legittimo fermarsi, per qualche ora, lasciandole lì, senza neanche pensarle.
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Scritto da: Francesca Magni
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Tags: Byung-Chul Han, La società della stanchezza, Nottetempo
Cara Francesca, condivido ogni singola sillaba che hai pubblicato su questo post.
E’ vero, siamo saturi… di tutto a quanto pare. Di questi tempi siamo saturi anche di informazioni che spesso disinformano anzichè informare, che aumentano l’ansia, che creano allarmismo… alimentando altro stress, come se non ne avessimo già abbastanza. E’ una spirale che ci annienta, ed annienta anche la creatività a quanto pare, la fantasia… quelle caratteristiche che sono sempre state considerate peculiarità del temperamento italiano.
Magari non dovremo rallentare… chi si ferma è perduto…Magari, e solo per un attimo, dovremo fermarci. Fermarci a pensare, fermarci e guardarci intorno, fermarci a riflettere per chiederci dove ci sta portando tutto questo correre?? Dove stiamo andando? Riprendere fiato, riposare solo un po’, appunto, recuperare le forze e le energie per poi riprendere a correre… ma con maggiore consapevolezza, per conseguire obiettivi che ci aiutino a crescere, che ci forniscano prospettive per il futuro… che ci convincano che tutta la nostra fatica serva a qualcosa.
Personalmente sono satura… e stanca sì, di sentirmi dire che il nostro è un paese non più competitivo, che invecchia velocemente, che non offre oppurtunità di lavoro ai giovani, che tutto il nostro correre non ci porta avanti ma purtroppo indietro… stanca di sentirmi dire che la nostra stanchezza, le nostre energie sono energie sprecate…
Per mia (nostra) fortuna possiamo ancora contare su un buon libro, su ottime letture che ci rigenerano, che ci permettono di staccare la spina e lasciarci trasportare dalla fantasia, magari anche vivere altre vite, coltivare ulteriori sogni, pensare ad una realtà migliore dove tutto è ancora possibile… che ci aiutano a ricaricare le batterie e magari ci forniscono anche ottimi spunti per… continuare a correre… stanchi ma soddisfatti, con la consapevolezza che i nostri sforzi non sono stati vani…
In certi momenti della vita, l’incontro con il libro giusto è CRUCIALE. Francesca hai ragione: rallenta, frena, riposati. Veramente però.
Ciao Francesca,
Sai la cosa che mi spaventa? Leggendo il tuo post mi sono resa conto che saltavo delle parole. Anche io leggo molto, ma leggendo il tuo post, nomen omen, è la prima volta che me ne accorgo in maniera cosi’ flagrante. Magari fa bene anche a me questo libro?
Lisa
Che questo libro faccia bene, non sono sicura. Diciamo che se consideriamo la consapevolezza un bene, allora sì.
Sono mesi che mi accorgo di un nuovo curioso funzionamento del mio pensiero che potrei definire una degenerzione del multitasking acquisito in questi anni di lavoro più figli (ormai leggo sempre saltando, poi se serve torno indietro…). Mi rendo conto che non so più parlare con qualcuno senza che la mia testa si posi contemporaneamente su pensieri diversi, il che rende framentato e disordinato il mio parlare, ma soprattutto mi rende sempre altrove rispetto a quello che faccio o che dico. Credo che, in me, questo meccanismo abbia superato una soglia di accettabilità. Non solo mi affatica, ma mi fa sentire sempre in superficie, sempre vitale, se vuoi, ma di una vitalità sciocca, senza radici. Persino quando sto con i miei figli la mente mi vola via, lasciandomi poi l’amara sensazione di non essere stata veramente con loro.
Il “troppo pieno” a cui la vita a volte ci sottopone (e a cui noi stessi non sappiamo mettere argine) è l’antitesi del vacuum creativo che sperimentavo nelle vacanze della mia infanzia e di cui ora ho un gran bisogno (https://www.lettofranoi.it/2010/08/souvenir-dalla-vacanza).
Ho bisogno di trovare una misura diversa delle cose. Il problema, per me, è che quelle “tagliabili” sono le sole che danno davvero un senso….
Il multitasking è l’esperienza più prossima all’ubiquità per degli esseri umani ma spinto al di là della ragionevole super efficienza che spesso la vita di oggi ci chiede è una forma di nevrosi, che come descrivi benissimo porta ad esaurire le energie e a disperderle senza riuscire a calibrarle qualitativamente. Volersi bene significa rallentare il ritmo frenetico della nostra attività cerebrale e consentirle degli spazi per il “gioco”, un po’ come i bambini che non hanno bisogno di vivere sempre giornate iper programmate. Eppure leggendo le tue riflessioni giurerei che per un istante, almeno mentre scrivevi hai “staccato” davvero…
Sì, Viviana, è come dici: abbiamo bisogno di spazi di “gioco” e di vuoto, niente programmi, piccoli buchi di tempo in cui la mente vaghi senza uno scopo. La società iperprestazionale in cui viviamo stigmatizza momenti come questi costringendoci a “rubarli”, con un po’ di vergogna. Ma si vergogna la terra di riposare, per rigenerarsi?
Ciao Francesca, mi chiamo Francesca ed ho appena intercettato il tuo interessante blog all’interno del quale sto fluttuando spinta da curiosità mista ad apprezzamento. Grazie di avermi ospitata. Il libro che citi è aggiudicato, lo comprerò, sono una sociologa e di tali riflessioni sul tempo ed i cambiamenti sociali amo cibarmi. Mi ha colpito leggere il tuo “voglio che mi sia concessa una stanchezza giusta”, da cui trapela, parrebbe, rabbia e che sottintende qualcuno a cui ti rivolgeresti. Penso che sia un’attitudine tutta femminile quella di aspettarci dagli altri cose che noi per prime non ci concediamo. Gli uomini si procurano ciò che vogliono perchè non sono attanagliati da quell’ancestrale senso di colpa che portiamo silenzioso in noi da sempre. Per quello che conta hai la mia comprensione. Sforziamoci di coltivare l’amor proprio senza remore. Ciao a presto. Francesca