Edith Warton L’età dell’innocenza

2 febbraio 2012
Scritto da: Maddalena Ramolini

Edith Wharton, L’età dell’innocenza (Bur, 2008, € 8,90). Non è facile per me scrivere una recensione su questo meraviglioso libro, poiché si tratta del mio preferito in assoluto. Come accade ogni volta, quando si vuole parlare di qualcuno o qualcosa che abbiamo amato fino allo sfinimento, c’è sempre quella sensazione insidiosa di sminuirlo attraverso le parole, di non riuscire a rendere concrete tutte le emozioni che ci ha dato, di renderlo diverso o peggio ancora ordinario. Correrò il rischio – sperando di riuscire a descriverlo come merita.

Capolavoro riconosciuto da tutti, scritto nel 1920, con questo romanzo Edith Wharton vinse il premio Pulitzer – la prima donna della storia ad averlo conseguito. Meritatissimo, aggiungerei. L’edizione Bur che possiedo lo descrive come “un romanzo in cui New York è più necropoli che metropoli e l’amore è soprattutto rimpianto” – parole splendide e azzeccate, ma dietro c’è molto di più.

La prima volta in cui l’ho letto mi è venuta la febbre – e non per modo di dire. Mi aveva preso talmente tanto, avvinto nella sua storia così lineare ma allo stesso tempo così complessa, da non riuscire più a staccarmene – non solo con gli occhi, ma anche con il pensiero. Ogni riga diceva qualcosa di me, di quella che ero, mi mostrava per la prima volta il mondo visto con gli occhi di qualcuno che lo percepiva come me – e mi sentivo subito meno sola.

L’età dell’innocenza racconta di una intera società in decadenza, che annega i suoi ultimi giorni nell’ipocrisia e nell’etichetta sempre più soffocante. Parla di un amore bruciante e impossibile che rimane tale più per volontà che per mancanza di possibilità. Descrive uno dei personaggi femminili più belli di tutta la letteratura: la contessa Ellen Olenska, coraggiosa, libera di essere se stessa, unica, indimenticabile. Ma – più di tutto – riesce a dipanare alla perfezione lo stato d’animo malinconico e struggente di chi vive sempre in un altrove irraggiungibile e incomprensibile ai più, soffrendo e lentamente morendo di malinconia per qualcosa che non ha mai veramente conosciuto.

Newland Archer, il protagonista, si innamora profondamente di Ellen, ma il contatto più intimo che avrà mai con lei sarà quello di tenerle la mano per pochi minuti, in fretta. Si scopre affascinato dalla sua libertà e spregiudicatezza e la difende ogni qual volta le zie e la società tutta la criticano, ma lui stesso non esita a disapprovare certi suoi comportamenti e a considerarla eccessiva, quando lo ritiene opportuno. Ne è allo stesso modo e allo stesso tempo attratto e respinto. Ellen Olenska rappresenta tutto quello che vorrebbe e, contemporaneamente, tutto quello che non vorrebbe mai, che gli fa paura proprio perché imprevedibile e ingovernabile. Si tratta di una consapevolezza dolceamara, la sensazione di avere qualcosa – qualsiasi cosa possa essere desiderabile e bella – a portata di mano, e la scelta cosciente di non coglierlo.

La stessa attrazione mista a repulsione Newland la prova anche verso l’innocenza che dà il titolo al libro: vorrebbe affrancarsi da un mondo che non gli corrisponde più, ma non riesce mai a farlo del tutto poiché è tutto ciò che ha e ciò che è, una parte di lui. L’innocenza non è per niente una condizione facile e naturale come può sembrare. Comporta responsabilità, richiede sacrificio. Necessita anche di una buona dose di presunzione, se proprio vogliamo dirla tutta. Ma è anche irrimediabilmente, irresistibilmente attraente, come il canto di una sirena. È un letto di solida roccia – è qualcosa che niente e nessuno potrà toglierti mai, più radicato della dignità, più profondo dell’orgoglio.

La verità è che Newland ama la propria innocenza più di quanto in realtà ami Ellen, e non è disposto a rinunciarvi. Sarebbe come rinunciare a se stesso, recitare una parte, fingere per il resto della vita di essere qualcuno che non si è. Smettere di crederci equivarrebbe a smettere di esistere.

L’idea di fondo che attraversa tutto il libro è che sono le cose che scegliamo (e sottolineo questa parola) di non fare, più di quelle che invece facciamo, che ci costruiscono come persone. Perché nella negazione ci può stare tutto, invece che un niente. Perché osservare immobili, senza essere visti, una persona amata che guarda a sua volta un lago calmo può essere appagante quanto il più sfrenato degli amplessi.

Da leggere, assolutamente.

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