quel bigné avanzato
(Massimiliano Verga Zigulì)

30 gennaio 2012

Massimiliano Verga, Zigulì (Mondadori, 2012, € 16,50, pp. 186). Ho scelto di rimettere in cima agli articoli questo post perché stanno arrivando molti commenti, interessanti e intensi. Danno ragione a Massimiliano e alla sua forza di dire la verità-di-un-genitore-di-disabile. E mi è piaciuta la definizione di Stefania: “la disabilità è un amore potente e una incazzatura costante”…

Massimiliano Verga, Zigulì (Mondadori, 2012, € 16,50, pp. 186). Jacopo era in classe con mia figlia alla materna. Aveva due anni più di lei, come usa oggi, dai tre ai cinque tutti nella stessa classe. Jacopo aveva due genitori dalla faccia simpatica, look un po’ alternativo, bassino il papà, altissima la mamma. Un giorno arrivarono con un passeggino, il secondo figlio. Più piccolo ma con una faccia un po’ da grande come hanno i bimbi disabili, eterni infanti con una strana “vecchiezza” in viso. La prima volta che lo vidi ebbi il lampo di un ricordo. Avevo pochi anni, l’età di mia figlia alla materna, e sedevo sull’asse rosso che fungeva da tavolo alla carrozzina di mio zio. Lo zio Luca. Anzi, Lozioluca, anche nei nomi dei bambini disabili qualcosa non torna, come nelle loro facce. Lozioluca ha solo dieci anni più di me, siamo stati bambini insieme, mi tirava i capelli forsennatamente e io li tiravo a lui per farlo smettere mentre spalancava la bocca in una risata gocciolante bava, pazza di divertimento e simile a un barrito. Poi scrollava la testa, mi lasciava andare e i suoi occhi tornavano beffardi, belli, indecifrabili.

Lozioluca era parte dell’arredo di cucina della casa della nonna, seduto sulla carrozzina che ogni tanto gli rubavo per sgommare in corridoio – ero campionessa con i freni a leva e nelle manovre di parcheggio tra il letto e la scrivania, mentre la nonna urlava Franceeeesca riportami la carrozzina del Luca! Lozioluca adorava le auto, sfogliava sempre lo stesso Quattroruote finché non era logoro come un cappotto vecchio, da piccolo tentava qualche passo appoggiando entrambe le mani all’armadiatura in corridoio e trascinando i piedi uno dietro l’altro, accavallati, una specie di passo incrociato che imitavo con perfezione perversa. Imitavo anche le auto che disegnava impugnando la matita come un bastone, dritta col pugno chiuso, le faceva tutte uguali all’infinito finché le mani non si sono anchilosate e non è più riuscito. Le gambe si sono anchilosate più in fretta, il passo incrociato è rimasto un ricordo dei suoi primi anni, quelli sotto i sedici. Che lui lo ricordi, però, non è affatto certo. Mi raccontavano che il suo cervello è quello di un bambino di quindici mesi, ma credo non esista niente di più ricettivo di un cervello di quell’età: credo volessero dirmi, con quella spiegazione, che Lozioluca non avrebbe mai imparato a leggere o a sostenere una conversazione, che si sarebbe fossilizzato in quell’età acerba e indistinta.

Attorno al tavolo di fòrmica in cucina Lozioluca sedeva con il bionno e la bionna, cioè i miei bisnonni. Li trovavo così quando andavo a trovarli; la nonna accudiva i genitori e il figlio con la stessa dedizione, madre bizzarra di creature rimastele appiccicate per scherzo della natura. A 96 anni la bionna se n’è andata, il bionno è rimasto fino ai 102  sulla sedia di cucina con Lozioluca che spalancava la bocca nel suo ghigno sonoro e bavoso quando lui si chinava per accarezzarlo; anche a lui afferrava i capelli bianchi cortissimi e il bionno urlava Piantala che mi fai male e Lozioluca rideva come un matto.

Ma il ricordo più vivo è il bigné avanzato. C’era sempre un bigné che rimaneva sul vassoio nei pranzi della domenica e la nonna lo conservava per Lozioluca. Il suo bambino più piccolo. Il suo parto incompiuto. Il quarto figlio che aveva dato alla luce grosso e sano e che a 15 mesi un’encefalite aveva reso tetraplegico spastico epilettico senza possibili evoluzioni, solo involuzioni. Ogni tanto lo guardavo con rabbia in quegli occhi bellissimi identici a quelli di suo fratello maggiore sano, anzi più belli e più dolci, costretti ad annegare in un viso in cui qualcosa non sarebbe mai tornato e provavo in corpo il dolore e la rabbia furiosa e l’orrore e il disgusto e la rassegnazione e la frustrazione e la pena e la dolcezza che la nonna non ha mai detto, ma che gli faceva schizzare in bocca sotto forma di ripieno alla crema del bigné avanzato.

E comunque, con tutto questo, con tutte le sere che ho aiutato la nonna a mettere a letto Lozioluca e ridevamo chiamandolo papa di gesso perché era duro e compatto e rideva anche lui mentre lo calavamo come un salame dalla carrozzina a forza di reni e la nonna piccola e esile era un toro e infilargli il pigiama con le ginocchia di legno incollate fra loro e il pannolone poi sostituito da una specie di raccoglitore moderno della pipì e la mattina portarlo in bagno e fare il bagno a Lozioluca era un’impresa mensile ma lavarlo a pezzi seduto sulla carrozzina era un part-time dalle otto a mezzogiorno sette giorni su sette e la colazione, il latte sbrodolato, il pranzo di traverso a ingozzarsi, bocca spalancata viso paonazzo poi blu poi viola e alla fine bianchissimo e collassato dopo che la nonna con una mano in gola lo aveva liberato e a tutti i commensali lo stomaco si chiudeva ma non lo davano a vedere. E comunque, con tutto questo, con tutti i giorni di bambina passati nella cucina della nonna con Lozioluca, il papà di Moreno ha ragione a scrivere «Ci si riempie la bocca quando si parla di disabili. Ma il mondo esterno non sa fino in fondo di che cosa sta parlando. L’ho già detto: che cosa è la disabilità puoi saperlo soltanto se hai un figlio handicappato».

E io, benedicendo la buona sorte, ho due figli sani.

Moreno ha 8 anni, un cervello grande come una caramella Zigulì, non vede, non parla, non ricorda, non capisce, non sa desiderare un gelato. Suo padre, Massimiliano Verga, docente di filosofia del diritto, ha buttato giù buona parte di questo libro in una notte, dopo un pomeriggio al parco giochi con Moreno. Grazie per aver scritto cose come queste:

«Se potessi avere cinque centesimi per tutte le volte che mi fai incazzare, avrei tanti soldi da poter mantenere il quartiere in cui vivo. Mentre se potessi avere cinque centestimi per tutte le volte che mi hai reso felice, forse potrei comprarmi un gelato».

«A quante cose ho rinunciato da quando sei nato? Non saprei dire, ma ragioniamo per approsimazione. Ad esempio, prendiamo un dizionario e mettiamo in fila tutti i verbi che troviamo. Tranne la forma riflessiva di “incazzare”».

«Per un genitore, un figlio handicappato sta a un figlio sano come per un alpinista una valigia sta a uno zaino».

«Vuoi sapere quanto sei insopportabile, a volte? Guarda fino a dove riesci a vedere e moltiplica quella distanza per dieci. Già, dimenticavo, non ci vedi…».

«Faccio di tutto per non averti fra i piedi. La vita è più semplice se non ci sei. Non ho neppure particolari sensi di colpa, quando trovo qualcuno a cui lasciarti per qualche ora. Quando però stiamo lontano per un po’ di giorni, arrivo a dire che sento la tua mancanza. Sarà l’abitudine. Ma non farlo sapere in giro».

Scritto da Francesca Magni

Post letto 7657 volte

40 commenti a “quel bigné avanzato
(Massimiliano Verga Zigulì)”


Scrivi un commento



*




Segui questo link per ricevere nuovi post dal blog!