ho il mal di cemento (e ottime ragioni per averlo): leggete Le conseguenze del cemento
di Luca Martinelli

9 dicembre 2011

Luca Martinelli, Le conseguenze del cemento. Perché l’onda grigia cancella l’Italia? Protagonisti, trama e colpi di scena di un copione insostenibile (Altraeconomia Edizioni, 2011, € 14,00, pp. 174). Mi arriva in redazione questo libretto grigio e giallo e contiene la risposta al mio mal di cemento. Chi guadagna in questo sconsiderato costruire? Servono davvero tutte le case che nascono come funghi (e che, in questi tempi in cui cerco casa, vedo spesso vuote, con perenni cartelli vendesi)? Se le alluvioni sono diventate sempre più letali, non sarà anche colpa del territorio massacrato? Qui le risposte arrivano a bomba in un’inchiesta giornalistica di grandi proporzioni e ferrea documentazione. «L’Istat nota che nel 2001 le aree urbanizzate includevano il 6,4% del territorio nazionale, con un incremento del 15% rispetto al 1991. Nello stesso periodo, però, la popolazione è cresciuta soltanto dello 0,4%». Le case infatti restano vuote. Ma al costruttore è sufficiente vendere uno o due appartamenti per avere il suo guadagno. Lasciare falansteri inutilizzati non è problema suo. Lui ha fatto guadagnare anche molte altre persone: produttori di cemento, cavatori di ghiaia e sabbia (leggete assolutamente il capitolo sul business delle cave!), politici locali… La gente comune no, non ci guadagna. Neanche chi compra e magari ama le case nuove, ci guadagna vista la qualità orribile con cui sono fatte.

Al giornale ho proposto un pezzo dal titolo Basta cemento! e il collega Maurizio Dalla Palma l’ha realizzato e gentilmente concesso perché lo pubblicassi qui. Leggetelo! Speditelo agli amici! Postatelo su Facebook e su tutti i vostri social network! Ce la faremo a creare una cultura del rispetto della nostra terra?

Servizio di: Maurizio Dalla Palma

Un mare di acqua e di fango ha travolto il 4 novembre le strade di Genova, portando via tutto, anche la vita di sei persone. Anche i giorni di una mamma e dei suoi due bambini. Ma se vogliamo mettere fine alle alluvioni e alle frane che quest’autunno hanno colpito, in modo diverso, Roma, la Lunigiana, le città della Liguria e Messina, con un bilancio di 23 morti, dobbiamo puntare il dito non contro le piogge ma contro il mare di cemento. È questo il vero colpevole. Il cemento e i suoi sponsor. «L’onda grigia dell’urbanizzazione non solo sta distruggendo il paesaggio italiano, unico al mondo, ma è la prima causa della pericolosità delle frane e delle alluvioni» denuncia Luca Martinelli, autore del libro Le conseguenze del cemento (Edizioni Altreconomia). La cementificazione avanza a ritmo forzato. Un centro commerciale a Bergamo, un porto turistico in Basilicata, svincoli stradali in Umbria: sembrano episodi isolati invece sono spezzoni dello stesso, tristissimo film. Si calcola che in Italia, secondo produttore europeo di cemento, siano stati edificati in 15 anni circa 3 milioni 663 mila ettari, un territorio pari a Lazio e Abruzzo. Il suolo libero è diminuito del 17 per cento dal 1990, e del 40 per cento dal 1950.

Cosa c’entra con le alluvioni?

«Il territorio italiano, montuoso, attraversato da fiumi e densamente popolato, è per il 70 per cento a rischio idrogeologico: 5.580 comuni e 6 milioni di abitanti sono esposti alle calamità» dice Fausto Guzzetti, direttore dell’Istituto di ricerca per la protezione idrogeologica del Cnr. «Ma se le tragedie sono frequenti è colpa dell’uomo e di come ha costruito». La cementificazione va fermata. E in questo articolo gli esperti spiegano, con dati spesso sorprendenti, perché continuare a costruire è una follia.

Perché la cementificazione rende più pericolose le alluvioni?

«A causa del cemento che rende impermeabile il suolo, l’acqua piovana non viene assorbita dal terreno ma si riversa interamente e in tempi rapidi nei fiumi» dice Giorgio Zampetti, geologo e coordinatore scientifico di Legambiente. «Di conseguenza le precipitazioni, diventate più intense per le alterazioni climatiche provocate dall’uomo, rendono i fiumi più pericolosi. A questo si aggiunge il restringimento dei corsi d’acqua dovuto alla urbanizzazione. Per far spazio agli edifici sono state eliminate le zone golenali, aree disabitate tra l’alveo e gli argini, che i fiumi un tempo allagavano, dando sfogo alla piena». Un esempio è il Vara, causa di alluvioni in Liguria, il cui alveo è passato da 820 metri a 140 metri. Risultato? «L’acqua, imprigionata tra alti argini, arriva con forza nei centri urbani» dice Zampetti. «Qui i torrenti sono spesso canalizzati e passano sottoterra. Basta un ostacolo al flusso, come l’accumularsi di tronchi e detriti, o precipitazioni eccezionali, come quelle di novembre a Genova, per arrivare al disastro». Scene frequenti in Liguria, dove la cementificazione ha inghiottito in 15 anni il 45 per cento del territorio libero. Fiumi e torrenti, ma anche frane. «Si costruisce sotto pendii instabili perché in Italia i terreni migliori sono già edificati e rimangono quelli di seconda scelta» spiega Zampetti. «Case e strade, inoltre, possono “incidere” una superficie collinare dall’equilibrio precario e creare le condizioni perché, con la pioggia, il terreno possa franare».

Come si deve costruire per evitare alluvioni disastrose?

«Un intervento urgente è abbattere gli edifici a rischio e ricostruire quelli legali fuori dagli alvei: solo il 6 per cento dei comuni lo sta facendo» spiega Edoardo Zanchini, esperto di consumo di suolo di Legambiente. «Dobbiamo vietare la costruzione di case accanto ai fiumi, riaprire le golene, tagliare l’eccesso di vegetazione sulle sponde per evitare che rami e tronchi vengano trascinati dalla corrente e diventino ostacoli, riaprire dove possibile i corsi d’acqua in città». Mancano però i soldi. Due anni fa l’Italia si è dotata di un piano contro il dissesto idrogeologico con interventi per due miliardi e mezzo di euro. Ma il governo non ha stanziato i fondi.

Perché invece si continua a costruire e chi ci guadagna?

La cementificazione avanza per una somma di interessi che mettono all’ultimo posto il bene dei cittadini: prima vengono costruttori, politici, proprietari di cave e di cementifici. Ma ancora prima ci sono le banche. «Il motivo che spinge gli istituti italiani a finanziare nuovi progetti, nonostante la crisi economica che non fa vendere case, è il timore di perdere i soldi dati negli anni passati ai costruttori, una somma complessiva di 131,6 miliardi di euro» dice Luca Martinelli, giornalista di Altreconomia. «Molti imprenditori rischiano il crack. E gli istituti, per non venire travolti, spostano i vecchi prestiti verso nuove iniziative, con operazioni di ingegneria societaria, in un gioco al rilancio pericoloso per i correntisti». C’è poi l’interesse dei politici. Non necessariamente legato al pagamento di tangenti. «Con il taglio dei fondi statali per i Comuni, gli amministratori, rimasti con le casse vuote, sono spinti a concedere autorizzazioni edilizie per ricevere dai costruttori gli oneri di urbanizzazione» spiega Martinelli. «Sono i soldi con cui i sindaci dovrebbero fare strade, scuole, centri sportivi, nei nuovi quartieri, anziché lasciarli deserti. Ma una legge permette di usare il 75 per cento degli oneri per far fronte alle altre spese. E così l’espansione edilizia diventa la risposta ai magri bilanci comunali».

C’è davvero bisogno di costruire nuovi edifici?

Dal 1991 al 2005 il suolo libero in Italia si è ridotto del 17 per cento. Nello stesso periodo la popolazione è aumentata dello 0,4 per cento. «Si stima che in Italia ci siano 5 milioni di seconde case e almeno 800 mila abitazioni sfitte: non ne servono altre» dice Martinelli. Certo, gli appartamenti rimangono invenduti a causa della crisi. «Ma incide anche la mancanza di edilizia popolare pubblica a prezzi contenuti: le case costano troppo» dice Zanchini di Legambiente.

Se non si costruisse ancora, molti italiani perderebbero il posto di lavoro?
L’edilizia ha un milione e mezzo di dipendenti, di cui 400 mila in nero. «I sindaci fanno la fila per ottenere autorizzazioni a costruire: la concentrazione di imprese edili è altissima e spiega la richiesta di continuare a espandere le città» dice Martinelli. «Ma anziché tirar su nuovi palazzi, si dovrebbe pensare, come avviene in altri Paesi, a ristrutturare le abitazioni e aumentare la loro capacità di risparmio energetico».

Quali altri pericoli per il territorio provoca la cementificazione?

La filiera del cemento inizia dalle cave e prosegue con i cementifici. «Nelle cave spesso si estrae più del necessario per speculare» dice Martinelli. «Per esempio, in una cava vicino a Brescia, si era autorizzato a scavare 900 mila metri cubi di ghiaia per la costruzione di una strada ma una perizia ha stabilito che ne sarebbero bastati 150 mila». Il paesaggio viene devastato, come dimostra il profilo dei monti Tifatini,  a Caserta, provincia con oltre 400 cave. C’è poi l’affare delle discariche. Le 8 mila cave chiuse vengono spesso trasformate, magari per mano della mafia, in luoghi di smaltimento dei rifiuti, tra cui quelli tossici. Ma la polemica investe anche i cementifici. Molti hanno il permesso di bruciare rifiuti. «La popolazione non lo sa e dunque non protesta» dice Martinelli. «Per questo si preferisce annunciare l’apertura di un cementificio anziché quella di un inceneritore».

(Pubblicato su Donna Moderna n. 48, 2011)

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di Luca Martinelli”


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