l’alienazione del lavoratore metropolitano
(Luciano Bianciardi La vita agra)

30 settembre 2011

Sfoglio le prossime uscite Feltrinelli e mi imbatto in una riedizione di un libro che Pino Corrias dedicò a Luciano Bianciardi intitolandolo Vita agra di un anarchico (Feltrinelli, 2011, € 8,50), titolo  che fa eco al famoso La vita agra che Bianciardi pubblicò nel 1962 (Bompiani, € 9,00) e di cui vi voglio parlare. Indimenticabile romanzo realista, l’ho letto un po’ di anni fa e da allora nel mio lessico è entrato l’aggettivo “bianciardiano”; mi si posa sulla lingua con un sorriso di fronte a certi bar squallidi di periferia con le macchinette mangiasoldi e l’odore di caffè stantio, o a certi sottopassi lerci del metrò dove la gente tira dritto con gli occhi sulla punta dei piedi, o a quegli angoli che la metropoli dimentica come le pieghe di una tasca mal cucita, sotto le tangenziali coi pilastri altissimi, sopra i cavalcavia di stazioni dismesse e ridotte a campionario di binari morti.

Bianciardiano è il lato grigio-smog dell’inurbazione, del boom economico, dello sviluppo industriale che ci fece decollare negli anni Sessanta – e chi se lo ricorda più! La vita agra somiglia a un cortometraggio di visioni metropolitane raccolte con dolore da chi veniva da Grosseto con un sogno ardito: dopo la morte di 43 operai di un’industria chimica toscana, uccisi dal crollo di una miniera per mancanza di norme di sicurezza, l’anonimo protagonista si traferisce a Milano con l’intento di far saltare la sede lombarda dell’industria e punirne i “capoccia”. Mentre cova il terroristico progetto, campa in affitto traducendo libri, consuma un amore indeciso e frequenta sordidi bar di quartiere. Ma il progetto non può andare in porto senza rendere complici gli operai dell’industria colpevole, ed è qui che si apre la falla: la metropoli del boom, dello sviluppo, del futuro, è una enorme centrifuga che spreme i suoi cittadini e lavoratori restituendoli frusti e prosciugati ai rimasugli del loro tempo libero. C’è una specie di veleno che intorpidisce la mente dell’uomo sottoposto alla pressione del lavoro moderno che, come una centrifuga appunto, lo scaglia sul perimetro della vita sociale ormai esausto e monadico.

Bianciardi ha una scrittura originale e senza tabù che si legge riga dopo riga con sorpresa e – per me almeno è stato così – ti fa immaginare una Milano in bianco e nero da film degli anni Sessanta, con i tram di legno e molte sigarette sulle bocche. Rileggerlo oggi fa un effetto strano: se il racconto de La vita agra si collocava all’inizio di una parabola economica ascendente, ora siamo al punto speculare, precipitati dal culmine e scivolati lungo la china opposta. Ma l’alienazione metropolitana che tanto scioccava Bianciardi è tangibile oggi senza sostanziali differenze, salvo forse il fatto che ce la raffiguriamo coi colori di un film degli anni Duemila, e con il retrogusto della beffa: tocca considerarla privilegio di chi, fortunato lui, un lavoro alienante ancora ce l’ha.

Ma c’è una considerazione di Bianciardi che vale la pena ripescare, ed è l’approdo di questo suo romanzo, che è anche un manifesto anarcoide e utopista: «Occorre che la gente impari a non muoversi, a non collaborare, a non produrre, a non farsi nascere bisogni nuovi, e anzi a rinunziare a quelli che ha». Una specie di ritorno a un’ecologia dell’esistere che Bianciardi spinge fino alla regressione estrema dell’uomo alla sua vita naturale e basica. Una provocazione. Rileggerla a quasi 50 anni di distanza ci fa apparire Bianciardi come un’inascoltata Cassandra.

Scritto da: Francesca Magni

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