Jonathan Franzen e perché Libertà si intitola proprio Libertà

20 agosto 2011

Ho appena “riletto” Libertà di Jonathan Franzen attraverso i racconti di mio marito, che lo ha finito da poco. Ne abbiamo discusso di continuo, il suo giudizio, come il mio e quello di alcuni di voi, oscillava capitolo dopo capitolo, pur mantenendo costante l’ammirazione per la scrittura densa che fa sgorgare i personaggi dalle loro azioni, dalle loro parole e pensieri, sempre perfettamente coerenti. Alla fine gli ho fatto una domanda che giro anche a voi: perché lo ha intitolato Libertà? E abbiamo ripreso a discuterne – che poi è il piacere della lettura quando si rovescia nella vita… Riunisco qui la recensione in corso di lettura che ho fatto nei mesi scorsi. Il confronto ovviamente resta aperto.

Non ho letto Le correzioni, con cui lo scrittore del Missouri ha conquistato  il National Book Award e platee adoranti anche in Italia, ma all’ennesimo pranzo con colleghi in cui qualcuno  parlava di Jonathan Franzen, mi sono decisa ad attaccare Libertà (Einaudi, 2011, traduzione di Silvia Pareshi, € 22,00, pp. 622). Alle prime pagine,  ha avuto un effetto ipnotico. Non ho trovato la scrittura complessa di cui molti dicono, ma una prosa molto studiata che avvolge, descrittiva, all’estremo, mai noiosa: non riuscivo a mollarlo. Il primo capitolo gira attorno ai Berglund, Walter e Patty, e a come li vedono i vicini di Ramsey Hill, nel Minnesota, dove hanno  una bella casa e due figli che Patty, ex campionessa di basket, cura con felice casalinghitudine e col suo fisico da atleta che non manca di apprezamenti dai vicini maschi. Nel secondo capitolo la stessa situazione finisce sotto la lente da un punto di vista diverso e più approfondito: Patty stessa racconta la propria storia fin dall’inizio (mi è piaciuto il suo definirsi “l’autobiografa”), i pessimi rapporti con la famiglia democratica e la madre impegnata in politica, il mancato attaccamento fra lei e la madre e con le sorelle, l’università al di sotto delle aspettative familiari, l’incontro con Eliza, un’amica squilibrata, il fidanzamento con Walter, ragazzo di ripiego al confronto con l’affascinante Richard, che Patty riuscirà ad avere solo quando è troppo tardi… La terza parte cambia di nuovo narratore: si passa a Joey, figlio maschio di Patty, amato da lei con distruttiva passione. E qui siamo a trecento pagine e rotti, metà tonda di un libro che continua a tenere attaccati per la capacità  di  descrivere i dati minuti di ogni vita e di cogliere, tra gli effetti della storia di ciascuno, le cause che li hanno prodotti. Il deteriorarsi dei rapporti fra Patty e il figlio Joey, il legame morboso e precoce di lui con Connie, l’adolescente vicina di casa dalla personalità inquietante, l’appassire del rapporto fra Patty e Walter, la relazione impossibile con Richard. Franzen è bravo a sezionare l’anatomia delle esistenze, ritrae i caratteri tipici della società americana, efficace il padre dell’amico di Joey, repubblicano innamorato della libertà e convinto di doverla imporre con ogni mezzo. C’è molta America, ovviamente, e l’America esatta che ci pare di vedere da qui.

Però: se fino a pagina cento aspettavo la mia mezz’ora di lettura serale, poi ho cominciato a proseguirla con una certa, non dico noia, ma insofferenza. E ora mi chiedo se questo affresco senza altra trama che la trama delle vite normali abbia davvero un senso, o almeno il senso che cerco io in un libro: che mi lasci un pensiero, una scintilla, una scoperta anche minuscola, un granello  da aggiungere alla collezione di sensi minimi che arricchisce la mia consapevolezza del mondo e della vita. Ecco, Franzen, con trecento e rotte pagine non me ne ha ancora lasciato uno. Bastava un documentario, un tiggì, il racconto di chi ci ha abitato, per sapere dell’America così. O forse no? Forse devo ancora avere pazienza, lasciare che continui a ipnotizzarmi col giochino di una scrittura dettagliatissima – che  alla lunga si fa un po’ stucchevole? Ma mi chiedo (e se l’avete letto, ditemelo): dove va a parare, Franzen?

(Scritto il 17 aprile 2011)

– Scusami, – disse infine. – Sto ancora cercando di capire come vivere. (pag. 369) Continua la lettura. L’attrazione ipnotica non smette. Ne riparliamo quando sarò arrivata in fondo.

(Scritto il 20 aprile 2011)

Dopo due recensioni in corso (di lettura), ora che ho finito Jonathan Franzen fatico a parlarne, come fatico a uscirne. La vita di Walter e Patty Berglund mi si è appiccicata addosso chiamandomi a identificarmi ora con l’uno ora con l’altra, ora con i loro figli o con Lalitha, la giovane collega di Walter, o con Richard Katz, l’amico storico, rocker depresso e di successo; come se ogni loro gesto fosse un paradigma. Ci si ritrova un po’ ovunque, in questo libro. Ci si ritrova nell’anelito di libertà di ognuno dei protagonisti e nella constatazione implicita che non sappiamo affatto cosa sia libertà, agiamo seguendo schemi di cui non siamo consapevoli, condizionamenti scritti dentro, prima che fuori. Eppure tutti, come i Berglund, cerchiamo di esercitare qualcosa che chiamiamo libertà convinti che ci porterà a essere felici, a esprimere e compiere noi stessi. Walter e Patty alla fine ci riescono, ma non è la libertà o ciò che loro credono tale a condurli a un approdo: piuttosto è il fatto che entrambi hanno il coraggio di immergersi nei propri errori, di “berne” per anni le conseguenze, di accoglierli senza rinnegarli; non a caso “Sono stati commessi degli errori” è il titolo che Patty dà al manoscritto in cui si confessa. Guardare dentro se stessi con  e rilevare onestamente gli sbagli sembra il solo gesto che siamo davvero liberi di compiere e il solo che alla fine può davvero liberarci. Scrive Isaiah Berlin: «Le illusioni di cui soffro determinano il campo delle mie scelte; la conoscenza di me stesso, cioè la distruzione delle illusioni, modificherà questo campo e mi darà la possibilità di fare scelte autentiche anziché credere di avere scelto una cosa  quando è stata, per così dire, la cosa a scegliere me» (Isaiah Berlin, Libertà, – Da speranza e paura liberati, Feltrinelli 2010, cit. pag. 265).

Il romanzo si chiude con un capitolo bellissimo, che si allaccia al primo: all’inizio era Patty vista dai vicini di casa, bella, vitale, agli albori della sua vita di madre; alla fine è Walter visto dai vicini di casa, un uomo solo e solitario, ossessionato dall’ambientalismo e dalla protezione degli uccelli, chiaramente triste in una casa riempita di fantasmi del suo passato, fantasmi che lui combatte accanendosi contro il gatto di una vicina. Ma per Walter non è la fine, è la fine di una fase, la fine del suo lutto (non posso dire per cosa), la fine dell’epoca degli errori. E dunque è un nuovo inizio.

Di nuovo Berlin: «I grandi momenti sono quelli in cui un mondo muore e un altro prende il suo posto», e vale per il macromondo sociale come per il micromondo personale.

(Scritto il 2 maggio)

Qui alcuni commenti che avete postato.

Lisa

Io l’ho letto come te ipnotizzata, e del resto sono stata ipnotizzata da tutti i suoi libri e racconti brevi.

A me Jonathan Franzen piace molto non solo perché è un grandissimo scrittore, capace di dissezionare perfettamente i caratteri e i pensieri delle persone che ritrae; mi piace soprattutto perché mi sembra uno dei migliori ritrattisti del nostro tempo. Nell’affresco di questa America un po’ lugubre e disconnessa trovo molti temi universali che, trasposti, sono angosce umane comuni.

L’ansia di Walter di essere una brava persona, con una buona coscienza ecologica; l’illusione di Patty di potersi liberare del mondo da cui proviene; Joey, che fa tutto quello che dice di non voler fare: quante persone che conosco hanno almeno qualcuno di questi tratti, idee, impulsi? Magari la vita non li porta ai passi estremi dei personaggi di Franzen, ma molte delle angosce e dei temi centrali sono fondamentalmente realistici e molto umani.

Franzen sembra duro: i ritratti sono talmente concreti e nudi che sembra freddo, spietato. In realtà non è così. Basta pensare alla fine del libro (non lo racconto per non rovinare a nessuno la sorpresa!) per capire che in lui c’è anche molta compassione e forse addirittura immedesimazione nelle vicende piene di errori e rimpianti dei suoi protagonisti.

Francesca Magni

Confesso che il capitolo centrale sull’impresa “ecologista” di Walter mi è parso un filo più noioso, ma qua e là ci sono delle istantanee sulle relazioni che descrivono così bene ognuno di noi (di sicuro me!), che non si riesce a mollare. La “recensione in corso” mi è sgorgata spontanea: in fondo tra amiche (anche amici) non ci si raccontano i libri anche mentre li si sta leggendo?
Aspetto vostri pareri, su Franzen!

Adele

Complici le tue recensioni “in corso” ho iniziato a legge Libertà, il mio primo Franzen. Le visioni della famiglia Berglund da ogni angolazione possibile ne fanno un ritratto veramente appassionante. E poi Franzen scrive molto, molto bene.

Leonardo

Finito ora Libertà, il mio terzo Franzen (dopo Le Correzioni e il giovanile Forte Movimento). Bello. Grande romanzo, senz’altro, condivido l’incertezza dell’inizio (dove va parare…?). Però poi ti soddisfa e gli ultimi due capitoli sono straordinari: una vena incredibilmente buona. Ciao a tutti.

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5 commenti a “Jonathan Franzen e perché Libertà si intitola proprio Libertà”


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