per ricordare e per lasciar andare i ricordi
(Nicole Krauss La grande casa)

12 maggio 2011

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Scritto da: Mara Marantonio

Nicole Krauss, La grande casa (Guanda, 2011, € 18,00). La profonda ragion d’essere del nuovo romanzo – il terzo – della scrittrice americana Nicole Krauss (New York, 1974), La grande casa, finalista al National Book Award 2010, sta nel titolo. L’espressione ci riporta infatti ad un celebre rabbino del I secolo e.v., Yochanan ben Zakkai; questi era ormai debole e anziano quando i Romani posero sotto assedio Gerusalemme. Stanco delle lotte intestine che dilaniavano il suo popolo, il Rabbino simulò la propria morte: si fece portare dagli allievi fuori della città, chiuso in una bara, e condurre davanti al comandante romano, Vespasiano. In cambio della – prevedibile – profezia sulla vittoria di Roma, egli ottenne il permesso di recarsi nella cittadina di Yavne per fondarvi una scuola, con l’impegno, da parte dei conquistatori, di non distruggerla. Poco tempo dopo, egli ricevette colà la notizia dell’incendio della Città Santa. In preda al dolore e ad angosciose domande: “Che cos’è un Ebreo senza Gerusalemme? Come si può essere ebrei senza una patria? Com’è possibile fare sacrifici a D-o se non si sa dove trovarlo?”, il Maestro annunciò che la “Corte di Giustizia finita in cenere a Gerusalemme sarebbe risorta…a Yavne”. I suoi discepoli cominciarono quindi a raccogliere secoli di leggi orali e le loro discussioni formarono il Talmud, libro che, pur sacro, incoraggia il dubbio, come rileva la nostra Autrice in una recente intervista. Pian piano, dopo la morte del Rabbino, si fece strada la concezione che era necessario “trasformare Gerusalemme in un’idea…il Tempio in un libro, sacro e intricato quanto la città stessa….” Si sarebbe plasmato un Popolo a immagine del suo mondo perduto e ciò ha consentito, lungo i secoli, a tale Popolo di sopravvivere, anzi di vivere, fino ad oggi, nonostante i duemila anni di persecuzioni, di distruzioni, nonostante la Shoah, nonostante tutti i tentativi, passati e presenti, espliciti o subdoli, di annientamento. L’accademia di Rav. ben Zakkai fu in seguito conosciuta come “La Grande Casa”, termine tratto da un passo del Secondo Libro dei Re nel quale si descrive la distruzione di Gerusalemme -da parte del Re di Babilonia- a cominciare dal Tempio, la Casa del Signore.
Come un Ebreo possa concepire la propria identità dopo il vuoto incolmabile lasciato dalla distruzione di Gerusalemme -e, a maggior ragione, in epoca contemporanea, dopo lo strazio indicibile della Shoah- e il conseguente tema universale di come ricostruire se stessi dopo una dolorosa perdita sono il tema centrale di quest’opera, il problema di fronte al quale, secondo sfumature e momenti diversi, si trovano i personaggi rappresentati. E come ci troviamo, o possiamo trovarci, noi durante la nostra vita.
Un romanzo dall’intreccio complesso e intrigante, articolantesi in due parti, dove la seconda chiarisce i misteri della prima, sia pure in modo forse non completo, perché – come ogni classico che si rispetti; e il libro di Nicole Krauss lo è, eccome! – lascia al lettore la possibilità di raccontare se stesso, tramite le vicende narrate.
L’ossatura è costituita da quattro storie principali, esposte in prima persona dai protagonisti – Nadia, Daniel, Aron, Dov, Arthur, Lotte, Leah, Yoav, Isabel e, soprattutto, George Weisz, la figura chiave di tutta la vicenda-, tra loro intrecciate e legate, secondo modalità e tempi differenti, anzitutto, da…u n mobile, un’immensa Scrivania, con ben diciannove cassetti, uno dei quali impossibile da aprire…
Anche i titoli di queste quattro storie sono quanto mai emblematici: spetterà al lettore scoprirne i significati, evidenti e/o allegorici, man mano che procede nel percorso.
La Grande Casa è un’opera impegnativa, ottimamente strutturata, in grado di coinvolgerti dall’inizio alla fine, senza stancarti mai, grazie ad accorgimenti in grado di appassionarti ad ogni angolo, pur talora non resistendo la scrittrice alla tentazione di virtuosismi stilistici e narrativi.
Un grande puzzle, dove, all’interno delle storie principali, leggiamo altre vicende secondarie, ricche di spunti, echi, suggestioni, in grado di penetrare nel profondo dell’anima grazie alle diverse sfaccettature dei temi trattati. Tante piccole storie, per così dire, a latere di quelle maggiori, brevi tranches de vie, come i cassetti piccoli della Scrivania, vera protagonista del libro, simbolo della Grande Casa.
Opera da centellinare, meditare, come certi cibi o vini d’annata, al di fuori delle consuete categorie letterarie, che sa cogliere con accenti sfumati i contrasti nei diversi rapporti dell’esistenza.
Il Mistero che, in fondo, caratterizza la relazione Uomo /Donna, anche quando due persone vivono da decenni l’una accanto all’altra; le contrapposizioni, talora drammatiche, tra Genitori e Figli; la responsabilità e la libertà dello Scrittore: “…lo scrittore” (fa dire Nicole alla sua Nadia) “adempie ad una…alta missione, a quella che solo in ambito religioso e artistico si definisce una vocazione…Non è un contabile, né è obbligato ad assumere il ruolo ridicolo e fuorviante della guida morale…”.
L’avanzare inesorabile della Vecchiaia; ma anche la sorprendente libertà che tale condizione ti riserva (“Ripresi a dipingere” riflette Arthur “un hobby giovanile abbandonato appena avevo capito di non avere talento. Ma il talento, venerato per tutto ciò che promette quando si è giovani, mi sembrava…irrilevante: ormai non mi si poteva promettere più nulla”.
E che dire delle riflessioni sulla Morte, con la quale gli Ebrei hanno un particolare rapporto? “…sebbene gli Ebrei abbiano parlato di tutto, analizzando, disquisendo…” sostiene Aron” essi hanno accettato di lasciare il problema più importante [quel che accade dopo la morte] in un grigiore nebuloso e indistinto. Defraudati di una risposta -e nello stesso tempo condannati da millenni ad essere un popolo che suscita nel prossimo un odio omicida- gli Ebrei non hanno altra scelta se non convivere con la morte ogni giorno. Viverle accanto, costruire le proprie case nella sua ombra”. Viene spontaneo pensare, leggendo queste righe, proprio al Paese di Aron, Israele, questo paradossale luogo a proposito del quale si suole ripetere che sono spesso i Padri a seppellire i Figli.
Un poema che spazia nei più vari ambienti storico/geografici: la New York di un inverno degli anni ’70, respirata nelle prime pagine, e, sullo sfondo, gli orrori della tortura nel Cile di Pinochet; la Londra verde della (apparente) tranquillità borghese; una Gerusalemme luminosa nella città vecchia e sonnacchiosa nel sobborgo di Ein Karem….la tragedia delle vite sfregiate dal terrorismo e dalla guerra; una triste piccolo borghese Liverpool; l’ancora selvaggio Galles con i suoi parchi naturali, Bruxelles dove due personaggi incontrano il proprietario di un palazzo che ha un’inquietante somiglianza con qualcuno la cui sciagurata esistenza s’incrociò con quella del Popolo Ebraico…
Romanzo ebraico, certo. Non solo e non tanto perché popolato di ebrei, ma per i temi trattati; temi, proprio in quanto ebraici, universali. Illuminante la conclusione.
Filo conduttore: la Memoria e come essa possa aiutarci a colmare i vuoti scavati dalle nostre tragedie. Ma la Memoria avrà assolto appieno il suo compito -farci ritornare a vivere, dopo una perdita apparsaci irrecuperabile- solo se, grazie a lei (e talvolta anche suo malgrado), riusciremo a distaccarci da un passato alienante che ci impedisce di guardare al domani.

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