Paolo Nori, una voce che apre gli occhi
(La meravigliosa utilità del filo a piombo)

11 aprile 2011
xxx
Tempo di lettura: 3 minuti

Paolo Nori, La meravigliosa utilità del filo a piombo (Marcos y Marcos, 2011, € 14,50). Chi non conosce Paolo Nori si prepari ad ascoltare una voce particolare. E dico voce non a caso: lo scrittore emiliano fa, di mestiere, anche il “lettore”, e gira l’Italia per tenere conferenze originalissime. Questo libro ne raccoglie alcune, scritte per essere declamate a voce alta, infatti hai  la sensazione che lui sia lì, con quel suo accento nato a Parma e domiciliato a Casalecchio di Reno, con i suoi baffi (sì, spesso ha i baffi e il pizzetto), la  corporatura campagnola e il  cervello sottile di traduttore dal russo, amante della letteratura e di ogni non ovvietà, capace di usare le parole come lame per separare il cuore dei concetti dalle mille bucce del luogo comune e della distrazione. Mi sono innamorata di Paolo Nori trovando per puro caso in libreria I malcontenti (Einaudi, 2010, € 16,00), un romanzo piccolo con una voce grande, in cui si racconta del tentativo di organizzare un impossibile festival dei malcontenti e intanto si parla del macontento di una generazione – quella dei protagonisti e quella di Nori, più o meno situata attorno al babyboom di metà anni Sessanta. Ci sono frasi tipo «Sono fatto in un modo che se uno mi dice che gli piaccio, io subito un po’ lo rivaluto» (pag. 112) oppure «Mi sembrava che noi fossimo stata la prima generazione che, se ci davano un lavoro, non era perché c’era bisogno, ci facevano un favore» (pag. 40). O quella storia di quando un amico si ritrova a portare una finestra rotta dal vetraio e glielo racconta e  lui, cioè la voce narrante del romanzo che poi è anche  Nori, scrive che «camminare con una finestra sottobraccio ti toglie tutto l’imbarazzo che uno ha di solito nel camminare. È come se tu avessi una guida, diceva Giovanni, avendo una finestra sottobraccio, è come se il tuo andare avesse un senso» (pag. 16).

Ma volevo parlare dell’ultimo libro, La meravigliosa utilità del filo a piombo che, vi dicevo, raccoglie alcune letture di Paolo Nori, per esempio una fatta al museo d’arte moderna di Bologna per spiegare il museo d’arte moderna ai ciechi. Il risultato è che Nori ti prende per mano e sei costretto a non mollarlo nel suo divagare perché se non lo molli e segui il filo a zigzag dei suoi pensieri, se non cedi alla tentazione di pensare che non sappia dove va a parare, lui va a parare eccome: qui, per esempio, riesce a dire con efficacia che non ho mai trovato altrove a cosa serve l’arte. «Per risuscitare la nostra percezione della vita, per rendere sensibili le cose, per fare della pietra una pietra, esiste questa cosa che noi chiamiamo arte. Il fine dell’arte è darci una sensazione delle cosa, sensazione che deve essere visione e non solo riconoscimento» (pag. 38). E per farlo capire racconta di Tolstoj che descrive una cosa molto comune nella Russia dei suoi tempi, ovvero denudare degli uomini, gettarli a terra, e colpirli sulla schiena con le verghe, e poi colpirli sulle natiche nude: Tolstoj non usa mai la parola fustigazione, che pure è il nome di quella cosa, perché così facendo avrebbe distolto l’attenzione di ognuno dal fatto per spostarla su tutto ciò che ognuno di noi ha nel cervello, rubricato alla parola fustigazione. Tolstoj «rallentando il riconoscimento, allungando la visione» non solo fa riconoscere la fustigazione, ma la rende sensibile, la fa vedere come fosse nuova. Ecco, Paolo Nori parla anche di cose come questa e in genere pure lui, nel suo periodare divagando, riesce ad allungare la visione provocando la vera sensazione, facendoci sentire come mai prima d’ora cose comuni e svuotate dalle parole comuni, un gatto, la fidanzata, i vicini di casa, la politica, la guerra. Un libro di Paolo Nori fa aprire gli occhi sull’incanto minuto di qualche particella di mondo.

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