dove va a parare Jonathan Franzen?

17 aprile 2011

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Non ho letto Le correzioni, con cui lo scrittore del Missouri ha conquistato  il National Book Award e platee adoranti anche in Italia, ma all’ennesimo pranzo con colleghi in cui qualcuno  parlava di Franzen, mi sono decisa ad attaccare Libertà (Einaudi, 2011, traduzione di Silvia Pareshi, € 22,00, pp. 622). Alle prime pagine,  ha avuto un effetto ipnotico. Non ho trovato la scrittura complessa di cui molti dicono, ma una prosa molto studiata che avvolge, descrittiva, all’estremo, mai noiosa: non riuscivo a mollarlo. Il primo capitolo gira attorno ai Berglund, Walter e Patty, e a come li vedono i vicini di Ramsey Hill, nel Minnesota, dove hanno  una bella casa e due figli che Patty, ex campionessa di basket, cura con felice casalinghitudine e col suo fisico da atleta che non manca di apprezamenti dai vicini maschi. Nel secondo capitolo la stessa situazione finisce sotto la lente da un punto di vista diverso e più approfondito: Patty stessa racconta la propria storia fin dall’inizio (mi è piaciuto il suo definirsi “l’autobiografa”), i pessimi rapporti con la famiglia democratica e la madre impegnata in politica, il mancato attaccamento fra lei e la madre e con le sorelle, l’università al di sotto delle aspettative familiari, l’incontro con Eliza, un’amica squilibrata, il fidanzamento con Walter, ragazzo di ripiego al confronto con l’affascinante Richard, che Patty riuscirà ad avere solo quando è troppo tardi… La terza parte cambia di nuovo narratore: si passa a Joey, figlio maschio di Patty, amato da lei con distruttiva passione. E qui siamo a trecento pagine e rotti, metà tonda di un libro che continua a tenere attaccati per la capacità  di  descrivere i dati minuti di ogni vita e di cogliere, tra gli effetti della storia di ciascuno, le cause che li hanno prodotti. Il deteriorarsi dei rapporti fra Patty e il figlio Joey, il legame morboso e precoce di lui con Connie, l’adolescente vicina di casa dalla personalità inquietante, l’appassire del rapporto fra Patty e Walter, la relazione impossibile con Richard. Franzen è bravo a sezionare l’anatomia delle esistenze, ritrae i caratteri tipici della società americana, efficace il padre dell’amico di Joey, repubblicano innamorato della libertà e convinto di doverla imporre con ogni mezzo. C’è molta America, ovviamente, e l’America esatta che ci pare di vedere da qui.

Però: se fino a pagina cento aspettavo la mia mezz’ora di lettura serale, poi ho cominciato a proseguirla con una certa, non dico noia ,ma insofferenza. E ora mi chiedo se questo affresco senza altra trama che la trama delle vite normali abbia davvero un senso, o almeno il senso che cerco io in un libro: che mi lasci un pensiero, una scintilla, una scoperta anche minuscola, un granello  da aggiungere alla collezione di sensi minimi che arricchisce la mia consapevolezza del mondo e della vita. Ecco, Franzen, con trecento e rotte pagine non me ne ha ancora lasciato uno. Bastava un documentario, un tiggì, il racconto di chi ci ha abitato, per sapere dell’America così. O forse no? Forse devo ancora avere pazienza, lasciare che continui a ipnotizzarmi col giochino di una scrittura dettagliatissima – che  alla lunga si fa un po’ stucchevole? Ma mi chiedo (e se l’avete letto, ditemelo): dove va a parare, Franzen?

XXX

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