una malattia peggiore dell’Aids
(David Kertzer La sfida di Amalia)

23 gennaio 2011
Scritto da: Edi Morini

Ipocriti e disinformati  pensano alle malattie sessualmente trasmissibili come alla conseguenza di chissà quali trasgressioni. In realtà occuparsi di un ammalato a rischio e/o allattare un bambino/a contagiato dai propri genitori è uno dei modi più diretti per venire infettati. Prima che il latte in polvere diventasse parte della quotidianità, moltissime balie morirono così, colpite da flagelli loro ignoti, contratti accudendo i bimbi a cui badavano per arrotondare le proprie entrate con i magri sussidi statali concessi a chi accudiva i neonati abbandonati presso i brefotrofi. La sfida di Amalia, scritto magistralmente da David Kertzer (Rizzoli, € 19,00) racconta in modo scorrevole un recente passato

sommesso e sommerso. Nell’Ospedale bolognese degli Esposti (ma la situazione era identica in ogni altra città d’Italia!) nei primi dieci mesi del 1895 c’erano 128 bebè allattati artificialmente (con il latte di vacca) e 95 di loro morirono. Le leggi del tempo vietavano espressamente alle madri nubili di crescere personalmente le loro creature, perché ciò era ritenuto scandaloso. La legge inoltre non prevedeva in nessun modo la responsabilità paterna. Nel 1896 i bimbi/e morti perché non potevano nutrirsi con il latte di una balia furono 202 su 313. Malati di sifilide, avrebbero infettato la donna che li avesse stretti al seno. Ma La sfida di Amalia non è soltanto il racconto di una lotta impari contro una malattia allora più terribile dell’Aids; è la cronaca della strage compiuta da un morbo che, prima dell’arrivo dei antibiotici, veniva “curato” con rimedi talmente terribili da far cadere i denti ai pazienti.
Amalia, costretta dal medico del brefotrofio ad accettare la custodia dell’infelice, innocente Paola, si ammala di sifilide insieme a suo marito: e vede morire dello stesso male i propri figli. Allora decide di sfidare il potere costituito e chiedere i danni. Da una parte una donna povera, giovane e analfabeta, dall’altra la «società» intera, con medici, avvocati, filantropi che in realtà gestiscono un orfanotrofio come fosse un’azienda che deve produrre reddito. «Quando il mondo dei ricchi e il mondo dei poveri entrano in collisione, è assai raro che sia il ricco a soffrire». Queste le parole chiave del racconto\testimonianza di David I. Kertzer, lo storico americano che ha insegnato anche a Bologna, considerato uno dei massimi esperti di storia italiana.  La vicenda inizia nell’ agosto 1890, quando Amalia Bagnacavalli, ammalata e analfabeta, scende dal treno partito da Vergato e si presenta a Bologna nello studio di un brillante avvocato, Augusto Barbieri. Gli racconta – su consiglio del medico del paese – la disgrazia che le è accaduta. Ha preso Paola, già cieca e denutrita, all’ Ospedale degli Esposti per allattarla e accudirla, in cambio di 9 lire al mese. Ma già nel momento della consegna si è accorta che la bimba soffre e ha chiesto un altro neonato. Richiesta respinta, per i medici la bimba sta bene. Amalia non ha scelta: se rifiuta, le verrà negato il denaro necessario per tornare a casa. Dopo pochi mesi una piaga al seno è il primo segnale della sifilide.
Casa Isolani, nel cuore di Bologna, era l’abitazione di Francesco Isolani, presidente del Consorzio amministrativo centrale degli ospedali di Bologna, da cui dipendeva anche l’Ospizio degli Esposti. Francesco Roncati, cui è dedicato l’ex manicomio di via Sant’Isaia, fu anche fra i medici più impegnati a difendere la casta dei camici bianchi, già allora impegnati in una battaglia che continua ancora oggi: negare ogni responsabilità legale per il proprio operato. «Gli ospedali avrebbero rischiato il loro intero patrimonio – scrisse la rivista Il Foro italiano – ogni volta che uno dei medici trattava un paziente». Terribile anche il retaggio dell’ ex Maternità di via d’ Azeglio, che fu la Casa degli Esposti. I numeri e le storie raccontano sofferenze inaudite, volute da una Chiesa che imponeva la separazione delle madri non maritate dai propri figli.
Amalia Bagnacavalli chiede che le venga risarcito almeno il danno materiale, dato che quello emotivo è incalcolabile – per la sifilide perde quattro bambini – e i processi vanno avanti per dieci anni. Primo grado e appello a Bologna, Cassazione a Roma, nuovo processo ad Ancona…
L’ avvocato Augusto Barbieri afferma di voler difendere i deboli dai prepotenti, ma in realtà usa Amalia con arti subdole per fare carriera. Vince!  Riesce ad ottenere un indennizzo di 23.000 lire – una vacca costava 500 lire – e un vitalizio mensile di lire trenta per la donna. Con un trucco, approfittando dell’analfabetismo della sua assistita, trasforma il vitalizio in contante immediato (7.000 lire) e incassa anche quello. Amalia non avrà un soldo (solo il pagamento per le cure ricevute) e morirà priva anche del proprio cognome, perché nessuno vuole avere nulla da spartire con chi ha osato sfidare il potere ospedaliero, parlando apertamente di una malattia di cui si preferiva tacere… Non è romanzo, purtroppo. E’ la cronaca di giorni vissuti appena ieri da troppe donne indifese. Un libro vero, coraggioso: in memoria di Paola, di Amalia e di troppe innocenti sacrificate agli interessi altrui.

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