essere fiore
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[1927, Alma, mia nonna, a 5 anni nella sua prima foto. Aveva paura che la camera la catturasse lasciandola per sempre incollata su quel cartoncino].
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Il giorno del funerale di suo padre, lei aveva già perso l’abitudine a uscire di casa: da anni un figlio malato l’aveva inchiodata alla villa di famiglia. Infilato il cappotto, si accorse di non avere pronta una borsetta; rovistò nell’armadio, prese la meno malandata e la imbottì di fogli di giornale, tra le risa mie e di mia sorella: «Cosa c’è da ridere, sciocche! Non posso mica portarla vuota». Si diede due pizzicotti sulle guance, surrogato del fard ai tempi di guerra, e fu pronta. Era abituata ai funerali, la nonna Alma. Prima un bambino nato morto. Poi il marito: se n’era andato che lei non aveva 50 anni, lasciandole quattro figli e una montagna di lettere spedite dalle petroliere su cui aveva navigato per tutto il loro matrimonio. Infine i genitori, accuditi fino a una vecchiaia centenaria. Forse per questo, ora che il funerale era per lei, la nonna era così bella. Diritta nella bara come nella vita, pronta al destino come era sempre stata, senza vittimismi e senza compiacimenti. Le mani erano le stesse, nodose per l’artrite, che avevo visto trasformare vecchi pullover in originali gonne di lana per le quali noi nipoti l’avevamo tanto presa in giro. L’espressione identica a quando entravo nella sua cucina e lei, attorno al tavolo di formica con il figlio tetraplegico e i genitori anzianissimi, esplodeva in un «Oh, la mia Franceeesca!» con la risata nella voce. Rideva spesso e di gusto, con l’umorismo ruvido di chi ti vuole bene senza darlo a vedere. L’ironia e un pacato disincanto erano cornice dei suoi gesti, del suo senso pratico (ricordo quando a mio cugino tamponò una ferita con asciugamani rossi, perché non facesse impressione), delle sue stravaganze (per i miei esami all’università diceva sempre un’Ave Maria, e poi aggiungeva «Tu studia, però, che lassù mica mi ascoltano»), della sua libertà interiore: doveva essere stata la sola scappatoia possibile, quando un male mai chiarito fermò il tempo di suo figlio di 15 mesi. Lui smise di camminare e non imparò a parlare, trasformandosi per sempre in un parto non compiuto. Eppure non è stata la dura sorte che le è toccata (a quanti capita!) a fare di lei una donna fuori dal comune, ma il modo in cui l’ha affrontata: mai depressa, mai recriminatoria, mai buia. La sua sconfinata generosità affettiva
non veniva né dalla fede né dalla retorica, ma da un naturale dover essere. “L’uomo nasce per vivere, non per prepararsi alla vita” scrive il dottor Zivago. Ecco, lei era questo. Vita. Fiore fiorito, come dice la poesia di Emily Dickinson con cui voglio salutarla.
Fiorire – è il fine – chi passa un fiore
con uno sguardo distratto
stenterà a sospettare
le minime circostanze
coinvolte in quel luminoso fenomeno
costruito in modo così intricato
poi offerto come farfalla
al mezzogiorno.
Colmare il bocciolo – combattere il verme
ottenere quanta rugiada gli spetta
regolare il calore – eludere il vento
sfuggire all’ape ladruncola
non deludere la natura grande
che l’attende proprio quel giorno.
Essere un fiore, è profonda
responsabilità.
–
(La nonna Alma, è morta il 25 gennaio di tre anni fa.
Questo articolo è uscito su Donna Moderna n. 7, 2008).
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Tags: Emily Dickinson, nonna, poesia, Zivago
Francesca, che bel ritratto, intenso e toccante.
bellissima recensione