Ugo Riccarelli Comallamore

2 dicembre 2010
Scritto da: Alessandra D’Ottone

«“Come all’amore, come all’amore” ripetè intanto il ragazzo e quel ripetere prese quasi il ritmo di una litania ossessiva che occupava il tempo, stringeva le parole tra loro, le univa e le sintetizzava in un unico grido: “Come all’amore, come all’amore” urlò… Le braccia spalancate, la testa rivolta all’insù, il giovane cominciò la sua danza sfrenata fatta di ghirigori e salti, una danza impazzita punteggiata dall’urlo della parola che aveva appena creato, con la quale aveva affrontato la paura, finalmente matto e saggio, rapito dalla felicità dell’amore che cambiava le regole della guerra e la scacciava». Comallamore (Mondadori, 2009, € 18,00) è l’ultimo romanzo firmato dal pluripremiato Ugo Riccarelli (il Gabriel Garcia Márquez italiano insignito, nel 2004, del Premio Strega per Il dolore perfetto). Con uno stile avvolgente e in punta di sogni, con la delicatezza dei fiori che accompagnano la storia e i suoi personaggi, l’autore sceglie di trattare una realtà non poco amara. È questa la storia ambientata in una piccola città dove, al centro, sorge un manicomio: uno spazio in cui tutto sembra immutabile, al di là di ogni luogo e di ogni tempo, come un intramontabile fermo immagine. C’è un punto, però, in cui le alte mura che circondano l’edificio si interrompono come per una dimenticanza. E oltre quella siepe, nascosti dietro una rete, fanno capolino i teneri e curiosi occhi del piccolo Beniamino che, noncurante dei rimproveri della famiglia, si scopre attratto dai gesti dei matti e dal misterioso mondo che nascondono e si ritrova ad osservarli instancabilmente. Quegli occhi non volevano proprio saperne di staccarsi dall’immagine di quel mondo così surreale, così apparentemente sereno e spontaneo, dove tutto poteva essere lecito senza dover avvertire il peso del controllo e delle restrizioni (questo si può fare, questo no!). Quel bambino come avrebbe potuto non restare incantato davanti alla scena di quei personaggi un po’ strani che,” come un gregge strampalato… cominciavano a staccare i petali da quella cascata colorata e li mangiavano con delicatezza e piacere, con la stessa sacralità con la quale un credente avrebbe accolto l’ostia benedetta all’altare. Sorridevano, i matti, presi da una serenità incomprensibile masticavano quei fiori colorati e, per un attimo, parevano ombre felici”. È poco più che un ragazzo quando Beniamino,ormai orfano del padre e studente di medicina, varca la soglia del manicomio in cerca di un impiego. L’Italia è quella del fascismo, la tecnica dell’elettroshock fa i primi proseliti, ma nell’ospedale arriva un medico, il dottor Rattazzi, che prova altri esperimenti. Con un raro, se non unico, spirito di umana abnegazione, di umile intelligenza e di altrettanto coraggio, questo medico prova ad immedesimarsi nei matti, ad attraversare le loro paure entrandovi in sintonia e a solcare un nuovo terreno per permettere a ciascuno di liberare il vaso della propria anima sofferente.
La crudele realtà della guerra e dei bombardamenti devastano anche la piccola città, ma offrono al Rattazzi l’occasione di sfollare i pazienti. E nello spazio libero della cascina del Pianoro, lontani da ogni controllo, ogni vaso dell’anima si rovescia e certi fantasmi riescono a spiccare il volo. E il coraggioso Beniamino, di fronte alle non poche difficoltà che gli remano contro, trova la forza per reagire con lo stimolo che il mondo libero e puro dei matti è riuscito ad infondergli e a farsi guida del gruppo che Rattazzi, in fin di vita, gli affida. La stupida guerra irrompe ancora una volta, senza alcuna pietà per la sofferenza, senza alcuna pietà per la vita. Beniamino sopravvive all’orrore e continua il suo viaggio di vita con tanto amore per le sue anime speciali. E lo racconta a qualcuno… E chissà se la vera follia apparteneva all’anima di quelli ufficialmente riconosciuti come matti, o a quella di chi ordinava di andare avanti in preda ad un disumano delirio di onnipotenza.
Non si può tornare indietro con la speranza di evitare il dolore, ma il presente ci tende una mano per pretendere di lavorare ad un futuro diverso. E non c’è bisogno di grandi sogni, di grandi ideali. Basterebbe provare a riscoprire un po’ di umanità. Basterebbe cercarla nell’altro (pur diverso da noi) per accorgersi che siamo ancora vivi e che il futuro è solo un po’ più in là della nostra siepe.

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