Silvia Avallone Acciaio
Scritto da: Elvia Grazi
Silvia Avallone, Acciaio (Rizzoli, 2010, € 18,00). Un libro d’esordio, incredibile, se si pensa all’età dell’autrice : 26 anni. Solo 26. Non sembrerebbe nello scorrere le pagine. L’autrice ha il raro pregio, per il quale sembrerebbero essere necessarie una maturità e una capacità di sintesi che di solito si raggiungono in un’età più matura, di raccontare realtà crude senza perdere in freschezza e poesia. Così sembra di vederla, quella via Stalingrado in cui i palazzi sorgono l’uno accanto all’altro, impilati come loculi di un cimitero. Si scorge la spiaggia, di sabbia e ruggine, con cumuli di alghe che i ragazzini, mentre si tuffano e giocano , non vedono. Per loro quello è il paradiso. Come lo è per Francesca ed Anna, le protagoniste del romanzo. Il disincanto non le coglie, nonostante vivano situazioni familiari difficili. Hanno dalla loro la forza della natura, di quei loro giovani anni, che promettono tanto, una intera vita da vivere. Ma non è la storia a rendere interessante il libro. Sono certi accenti, dai quali sorgono, quasi impreviste sensazioni antiche eppure nuove. Si percepiscono afrori, si indovinano colori e suoni, scampoli di vita nei quali è facile riconoscersi. E non importa se non c’è né c’è mai stata una via Stalingrado nei nostri trascorsi. L’adolescenza ha ferito anche noi. Ci siamo sentiti impotenti, soli, indifesi e poi d’un tratto invincibili. Ci siamo fatti rapire dalla malia di uno sputo di giardino che si guadagna uno spicchio di sole rubandolo al cemento. La poesia ci coglie anche quando racconta i rumori di una comunità fatta di vasi comunicanti, che ributtano immagini, discussioni, vicende speculari. Così può succedere il miracolo. La voglia di vita romba, anche tra i fumi maleodoranti delle fabbriche siderurgiche . La Avallone racconta un tempo in cui tutto può ancora accadere, dove le strade sono aperte . E non importa se il muso dei casermoni popolari ammiccano alle strade deserte di un mese di giugno affocato così lontano dalle promesse dell’isola d’Elba, dalle sue acque cristalline. Poco importa se tutto è così drammaticamente desolante. Perché è proprio quando la vita e la morte si urlano contro, ruzzolano e si mischiano, come in una rissa che accomuna i corpi, che si coglie il senso.
Impagabili certe atmosfere, ovattate o al contrario troppo vivide di colori. Ti sbattono in faccia, come un vento inclemente e risvegliano pensieri e percezioni … stupori che credevi sopiti. Brava Silvia, così giovane e già così ‘grande’.
Post letto 1586 volte
Tags: Acciaio, Rizzoli, Silvia Avallone
Concordo con la recensione di questo libro. Mi è piaciuto e credo che l’incedibile successo di Silvia Avallone sia meritato. Perché racconta in maniera credibile una vicenda dura rimanendo poetica, come hai detto tu Elvia.
Credo che sia uno dei libri più brutti che io abbia mai letto dopo Meglio Dirselo di Daria Colombo (moglie di Vecchioni), scritto così così, nessun volo di penna, nessuna emozione. Non ci ho trovato nemmeno la poetica che voi dite.
A volte mi chiedo cosa spinga un Editore noto a stampare e pubblicizzare e spingere libri di questo tipo.
Per la Avallone magari mi ricrederò alla seconda pubblicazione.
Sono pochi gli Editori che riescono a tenersi fuori dai format televisivi, dagli amici degli amici etc. Sto invece trovando grande soddisfazione andando in cerca di libri di autori sconosciuti. Si possono trovare sorprese di grande spessore.
Non sono d’accordo con Agata ma ritengo che questo sia un libro che divide come capitato con un altro best seller come La solitudine dei numeri primi.
Ho amato Acciaio ma ho accolto in modo molto tiepido il libro di esordio di Paolo Giordano.
Mi duole però che si parli troppo poco di autori molto bravi come Menendez Salmòn e Cristiano Cavina.
caro Riccardo purtroppo non conosco questi autori, mi puoi dare qualche titolo di libro e consigli? grazie
Di Menendez Salmòn consiglio L’offesa, Gridare, Il correttore o Derrumbe mentre di Cavina consiglio Alla grande ma soprattutto I frutti dimenticati.
Di questo romanzo in odore di pessima fiction televisiva e talk show di d’ursiana memoria, resta la consapevolezza di un’impalcatura pseudo-narrativa ammiccante e superficiale. I soliti cliché di vite alla deriva, il pedale spinto sulla sessualità a buon mercato, il fatterello di cronaca nera quasi alla fine e un finale insulso, che non chiude, nel senso che non si erge a giusta summa letteraria.
La scrittura poi… un esempio? L’autrice (e non mi stupisce che abbia scritto simili imperizie data l’età) usa il verbo brucare almeno quattro volte in modo improprio, inutile oserei dire.
brucare[bru-cà-re] v.tr. (bruco, bruchi ecc.) [sogg-v-arg]
• Rosicchiare le foglie; strappare l’erba a piccoli morsi, come fanno bruchi e animali erbivori, freq. con arg. sottinteso: le pecore stanno brucando.
Ebbene l’autrice scrive qualcosa come: “i suoi occhi mi brucarono avidamente” e “brucai le immagini di quelle foto”; un po’ troppo per una licenza poetica.